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Inventare utopie: gli strumenti per reagire alla crisi secondo Elena Bucci e Marco Sgrosso

a cura di Annalisa Fania, Eugenia Granchelli, Edoardo Proietta, Simona Silvestri, Alessandra De Luca, Giulia Panza, Alessandra Zoia, Andra Bai.

Foto di scena dello spettacolo Prima della pensione, di Luca dal Pia


Elena Bucci e Marco Sgrosso sono autori, attori e registi. Fondatori nel 1993 della compagnia Le Belle Bandiere, sono stati parte del nucleo storico del Teatro di Leo di Leo de Berardinis e sono oggi tra i più attivi e importanti protagonisti della scena teatrale contemporanea. Hanno costruito un loro specifico linguaggio artistico e un modo di fare teatro libero e autonomo ma vivificato, allo stesso tempo, da una serie di importanti collaborazioni. Sarebbero dovuti essere a marzo ospiti della stagione del Teatro Palladium con lo spettacolo Prima della pensione – ovvero cospiratori di Thomas Bernhard, per la prima volta in scena a Roma. A causa dell’emergenza sanitaria lo spettacolo non è mai andato in scena, ma Elena Bucci e Marco Sgrosso hanno generosamente e calorosamente accettato il nostro invito ad un incontro virtuale, nel quale abbiamo potuto riflettere insieme e in modo realmente appassionato su molti temi importanti del nostro presente e sui cambiamenti che le diverse arti, in particolare quella teatrale, si trovano oggi ad affrontare, per eludere il rischio che l’emergenza sanitaria si trasformi altresì in un pericoloso impoverimento del nostro spirito.


In che modo questo periodo storico e questa quarantena stanno influenzando il vostro lavoro, sotto il punto di vista puramente pratico, ma anche sotto quello più creativo e artistico?


Bucci: Faccio una premessa: ho la sensazione, sempre più nitida, che questa emergenza e questo periodo di quarantena abbiano funzionato come una lente di ingrandimento, come una pozione rivelatrice. Le questioni e i problemi che venivano accantonati, rimossi, o ignorati durante la folle corsa che la pandemia ha interrotto, sono emersi con chiarezza. Non posso non interrogarmi con spietata sincerità sul ruolo degli artisti, sul senso e sulla necessità di rincorrere numeri, impegni, produzioni, spesso senza avere la possibilità di approfondire il lavoro come si vorrebbe, sulla relazione con le istituzioni, con gli spazi, con il pubblico, con la stampa. Interrogo anche me stessa: sono proprio sicura di andare dove dovrei e vorrei? Ci sono voci e desideri, dentro e fuori di me, che non ascolto e che avrebbero molto da esprimere? Posso eludere l’evidenza dei problemi del pianeta e di un sistema economico globale che non riesce a sopravvivere senza creare conflitti e povertà in funzione della ricchezza di pochi? Quanti significati racchiude la parola artista, oggi? Sentirsi artista con varie dimensioni e funzioni è una questione che stiamo affrontando con urgenza nel presente e non riguarda soltanto gli autori e i registi. Essere attori significa, anche se si segue una regia o un progetto di altri, essere in ogni momento anche autori, responsabili di quello che si fa, estremamente creativi nelle scelte, nelle risposte, nello studio. Ognuno ha un modo diverso per rispondere ad un impulso dato da una regia, dalla direzione di un progetto o da un docente. E tutta la qualità e la magia stanno nell’originalità, nella potenza, nella forza, e anche nel coraggio con i quali si risponde e si rilancia. Lo stesso vale per l’atteggiamento degli artisti nei confronti della realtà: il loro sguardo, la loro risposta sono fondamentali per bilanciare visioni, leggi, scelte politiche ed economiche.


Venendo alla domanda, la nostra compagnia negli ultimi anni ha lavorato molto e ha avuto poco tempo per stare ferma e lasciare decantare le azioni. Siamo una compagnia leggera, piccola, ma libera, agile, che si muove su molti versanti di collaborazione, da Lecce a Milano, da teatri grandi a teatri piccoli, da scuole di teatro affermate a piccole realtà di laboratorio; non scegliamo in base alla visibilità o al denaro, ma assecondando la bellezza dei progetti. Riusciamo a divertirci davvero soltanto partecipando di molte realtà diverse, purché in esse ci sia un’autenticità, una qualità nell’impulso progettuale e nel lavoro, e allo stesso tempo anche un intento ideale che ci faccia sentire come la nostra arte e gli studi possano servire a un progetto collettivo rivolto alla conoscenza e al bene comune, e non soltanto ad avviare una gara alla competizione, come spesso ci sentiamo siamo spinti a fare dalle circostanze. A volte gareggiamo, ma se non si tratta di leale emulazione, di salutare confronto con altri artisti, ma soltanto di acquiescenza alle regole del mercato, finiamo per ritrovarci insoddisfatti, infelici, soli e spesso più poveri. In questo momento di sospensione abbiamo cominciato a riflettere su tutti quei nodi e su quelle domande lasciate in sospeso nell’urgenza dell’azione. Stavamo facendo davvero le scelte che volevamo e nelle quali crediamo? O siamo succubi della paura? Siamo nati per questo? Stiamo approfondendo le nostre relazioni, anche se in modo virtuale, stiamo ragionando in profondità su quello che significano la scrittura, il progetto. Lo facevamo anche prima, ma sempre con affanno perché per fortuna lavoravamo molto, sia perché siamo indipendenti e con pochi finanziamenti pubblici e sia perché cerchiamo di cogliere per entusiasmo molte occasioni. Tutto quello che abbiamo deriva da un lavoro continuo, tenace, vario, faticoso, ma anche molto divertente. Non voglio evocare immagini di vittimismo, è una scelta consapevole e perseguita. Non abbiamo contributi ministeriali, riceviamo finanziamenti solo dalla Regione Emilia Romagna e dal Comune di Russi, ma ci siamo guadagnati tante belle, vere e lunghe collaborazioni che ci permettono di produrre in libertà spettacoli che non potremmo affrontare da soli.

Abbiamo mantenuto la residenza a Bologna, città dove abbiamo studiato e lavorato con Leo de Berardinis, ma siamo tornati a lavorare anche nel piccolo paese dove io sono nata e dove, attraverso la passione per il teatro e le arti, abbiamo innescato un movimento di persone di ogni età, credo politico, censo, che ha portato alla riapertura al pubblico molti spazi, tra i quali il Teatro Comunale che era chiuso da decenni. Non abbiamo mai gestito nessuno di questi luoghi, ma l’avventura è stata entusiasmante: è una realtà piccola ma che ci ha permesso di fare esperimenti e prove con molta libertà. Ora l’ex scuola elementare di campagna che acquistai ad un asta del Comune si rivela uno spazio molto prezioso per vivere e creare, finchè i teatri saranno chiusi. Qui possiamo registrare, provare, studiare, riordinare gli archivi.

Abbiamo approfittato di questo momento di clausura creativa proprio per raccontare finalmente tutta questa nostra storia: abbiamo creato un blog, potenziato il sito, cominciato a raccontarci attraverso video, racconti, documenti, fotografie. Sono emerse molte altre storie, di spettacoli, artisti, compagnie, luoghi, fatti, e abbiamo avuto la nitida sensazione che questo lavoro potesse essere utile anche ad altri. Ad esempio, da ventenni e trentenni, ma anche dopo, visto che è una passione, abbiamo vissuto l’avventura straordinaria di essere pionieri nel riaprire teatri e spazi. Abbiamo voluto raccontare queste storie per moltiplicare la fiducia, perché chi comincia la sua strada adesso senta che si può cambiare la realtà. Con passione e determinazione si possono fare miracoli anche se siamo in un paese in grande difficoltà e in grande crisi. Forse proprio per questo si potranno aprire nuove strade.

E poi abbiamo approfondito gli esperimenti col mezzo del video: ci è stato chiesto da molte strutture di realizzare dei video di pochi minuti come testimonianza, sostegno, sostituzione simbolica degli spettacoli saltati. Ci siamo chiesti che cosa significhi trasmettere il nostro lavoro in video, cercare una qualità anche in un minuto e mezzo, non accontentarsi della prima immagine che viene. Anche in questo stiamo cercando di darci una disciplina, pur nella semplicità dei mezzi tecnici che abbiamo a disposizione ora: un telefono, un computer. Sono già tanto, rispetto al nulla, ma hanno caratteristiche particolari: è necessario misurarsi con le loro potenzialità, con le qualità della voce, il senso dell’immagine, il significato della scelta di un testo o del valore di una scrittura originale. Questa ricerca, per quanto semplice, chiede tempo ed è continua. Esploriamo tutto quanto si può fare senza l’incontro dal vivo. Siamo immersi in una ricerca continua, ma che non deve andare a discapito della natura delle arti dal vivo, che vanno protette nella loro singolare essenza che arriva dritta dall’antichità e che ha resistito, insostituibile, fino ad oggi. Nessuno nella storia passata si è mai sognato di cancellarle, nonostante ci siano stata altre pestilenze e ben più gravi di questa. Trovo molto strano che oggi, con tutti i mezzi che abbiamo per difenderci, si possa ipotizzare di sostituire l’arte dal vivo con la televisione. La televisione dovrebbe occuparsi di più del teatro, diffonderne la conoscenza con interviste e racconti, ma non sostituirlo.

Infine, abbiamo lavorato su progetti già avviati che non avevamo mai tempo di coltivare, come ad esempio Archivio vivo, un progetto di documentazione dell’arte dal vivo e di recupero della memoria degli artisti che comprende il riordino dell’archivio, interviste, narrazioni, scritture, documentari su storie di teatro, di persone, di una terra, di luoghi, di mestieri in via di sparizione. Abbiamo approfittato di questo tempo anche per studiare i mezzi con i quali stiamo comunicando in questo momento e che sono comunque meravigliosi, visto che ci consentono di confrontarci e parlarne.


Sgrosso: La sospensione delle attività di spettacolo dovuta all’emergenza sanitaria, professionalmente, è stata un duro colpo. I progetti che già erano in corso, e purtroppo non soltanto quelli a breve scadenza, sono saltati: a partire dalla nostra presenza al Teatro Palladium, che doveva essere preceduta da una permanenza di dieci giorni dello stesso spettacolo a Brescia, dove è stato riallestito; sarebbe poi seguita una nuova produzione con la regia di Roberto Latini per il Teatro Metastasio di Prato e in maggio avremmo dovuto portare il nostro L’anima buona del Sezuan al Piccolo Teatro di Milano. Ancora in maggio era previsto il debutto di un mio nuovo assolo, una lettura-concerto tratta da A colpi d’ascia, un bellissimo romanzo di Thomas Bernhard, lo stesso autore di Prima della pensione; e anche un importante presenza all’Aula Magna Santa Lucia dell’Università di Bologna per una versione delle Eumenidi di Eschilo nella nuova traduzione del professor Federico Condello. insomma, una serie di appuntamenti prestigiosi, ai quali tenevamo molto. Come ha già illustrato Elena, ci siamo ovviamente riorganizzati per far sì che questa interruzione delle attività di spettacolo potesse comunque trasformarsi in qualche modo in un tempo ‘creativo’, ma è opportuno tenere ben presente la differenza. Non bisogna confondere: la capacità di riorganizzarsi con altri mezzi non è spettacolo dal vivo. Quest’ultimo non è assolutamente sostituibile da formule in streaming, e non è neppure giusto che lo sia, perché lo spettacolo dal vivo rimanda al concetto molto antico e di fondamentale importanza sociale dell’assemblea civile del teatro dell’antica Grecia. Gli uomini hanno bisogno di trovarsi insieme fisicamente per condividere esperienze di conoscenza e di crescita. Adesso logicamente non è ancora possibile perché stiamo vivendo un’emergenza sanitaria in corso, ma sarebbe molto pericoloso abituarsi a pensare che se ne possa fare a meno. Non è così! Intanto perché la fruizione in modalità video è completamente diversa rispetto a quella che avviene in teatro, e naturalmente diversa è anche la modalità di partecipazione del pubblico e il suo coinvolgimento. In particolare l’arte teatrale prevede un nucleo di persone raccolto, compresente e ridotto nella sua caratteristica non sostituibile, che è appunto la presenza dal vivo. È necessario essere consapevoli che l’effetto che potreste avere se io adesso recitassi un testo ora, mentre mi guardate da uno schermo, non ha assolutamente niente a che vedere con quello che avreste se ciò accadesse dal vivo. Purtroppo in questi giorni di sconvolgimento dovuto alla quarantena riguardo alla nostra categoria sono proliferate disquisizioni e soluzioni prive di competenza e preoccupanti, purtroppo anche da parte di ministri, assessori e addetti che dovrebbero invece avere tutti gli strumenti per valutare con maggiore attenzione e competenza le loro affermazioni, e questo anche da un punto di vista di organizzazione economica e d’impresa: uno spettacolo dal vivo coinvolge diverse categorie di persone che prestano la loro professionalità, dall’autista del camion che porta le scene, ai tecnici, alle sarte, al costumista, al truccatore, agli attori e a tutte quelle categorie professionali che adesso si ritrovano nell’impossibilità di lavorare e quindi anche di guadagnare. È molto importante che in una situazione di tale gravità non si vada nel pallone e ci si attivi per trovare altri canali consoni alla nostra attività, in attesa che si possano riprendere le attività dal vivo, ma senza dimenticare che la nostra vocazione di partenza è un'altra. Questa forma di importantissima assemblea civile non può essere messa da parte né sostituita da un surrogato che non ne potrà mai avere le caratteristiche fondamentali. Così come non può essere risolta in una forma virtuale anche la Scuola: vogliamo anche soltanto paragonare che cosa possa significare e quale valore avere per un bambino entrare in una classe e vivere il suo primo contatto con la società, al di fuori del nucleo familiare, entrando in uno più grande, che è quello della scuola, al sostituire questa esperienza diretta e concreta con un collegamento online? Tutti questi processi sono essenziali per costruire la struttura dell’uomo, per questo è molto importante che esistano e siano preservati. Dunque, è importante trovare altre vie per la creatività, ma è anche importante mantenere la lucidità di capire quello che alla fine deve essere strenuamente difeso.


Bucci: In qualche modo questa chiusura, questa frenata della corsa, è come se, come ho già accennato, avesse rivelato in modo crudo, ma essenziale una realtà che era già presente, ma che non sapevamo o volevamo vedere. Il mondo artistico e teatrale nel nostro paese era già in grande difficoltà, così come il sistema sanitario; la relazione tra la realtà del nostro paese e la sua classe politica aveva dei forti elementi di dubbio e di distanza, e anche l’idea d’Europa andava rivista, ripensata, ritrovata, e così il valore e il senso della democrazia, il concetto di bene comune contrapposto spesso ad un individualismo sfrenato. La democrazia sta attraversando una crisi in tutto il mondo, dobbiamo fare attenzione a mantenerla salda nella nostra Europa, che è un forte baluardo di risultati basati su ‘uguaglianza, fratellanza e libertà’ raggiunti soltanto ieri. Stiamo vivendo una pericolosissima e dolorosissima opportunità di tenere bene gli occhi aperti senza dare per scontate le opportunità e diritti per i quali molti hanno lottato, sacrificando vita, professioni, affetti.

Marco ed io ci siamo sempre mantenuti con il nostro lavoro, fin da quando avevamo vent’anni e non avremmo mai immaginato di perderlo all’improvviso e del tutto. Sono stati attivati in breve tempo diversi ammortizzatori sociali, ma non tutti i lavoratori dello spettacolo hanno potuto usufruirne e non possono certo bastare a sostituire i contratti saltati. Questa situazione ha rivelato la fragilità e la precarietà del lavoro artistico nel nostro paese rispetto alla Francia, alla Germania, al Belgio. Anche se le difficoltà stanno aumentando in tutta Europa, mi pare che ci siano Paesi dove gli artisti sono più tutelati e rispettati, ma non vorrei avere dati imprecisi. Siamo in un mondo in rapido cambiamento e ogni notizia del passato va continuamente riveduta e corretta. Questo non significa che la vitalità e la qualità artistiche italiane siano in crisi, anzi. E’ un miracolo vedere come sappiano superare qualsiaisi difficoltà, diventando spesso un punto di riferimento per altri, dal teatro al cinema, alla letteratura al romanzo grafico. Sarebbe bello che questa fosse l’occasione per un risveglio culturale, civile e artistico che porti l’attenzione su molte realtà di valore, accantonando conformismo e connivenze.

Abbiamo ritrovato alcuni tratti del nostro lavoro così semplici e belli da essere spesso dimenticati: quando si cominciano a praticare le arti si ha meno bisogno di comprare oggetti e beni, si diventa più liberi dal mercato. Molti di voi, come noi, si saranno ritrovati a pensare: appena potrò uscire saprò scegliere quali siano le cose davvero importanti. E’ un processo di consapevolezza che il teatro e le arti facilitano. Nella pratica avviene un processo di trasformazione di sè difficile da descrivere a parole: capisci più di te, vedi ciò che ti serve davvero e ti senti più libero da pressioni e condizionamenti. Tutto questo accade se il teatro è fatto bene, con coscienza, e non se il suo potere viene usato per manipolare e asservire, come se si fosse parte di una setta.


Non abbiamo potuto vedere lo spettacolo "Prima della pensione" che sarebbe dovuto essere in scena i primi di marzo al teatro Palladium, sappiamo che un racconto non potrà mai sostituirne la visione in teatro e non vorremmo che fosse questo l’intento del nostro incontro virtuale, tuttavia potrebbe essere un tentativo di avvicinamento a quello che sarebbe dovuto essere. Potreste aiutarci a vedere lo spettacolo attraverso il vostro sguardo e accompagnarci nel processo della vostra creazione?


Sgrosso: Lo spettacolo è l’allestimento di un testo di un grandissimo autore austriaco, Thomas Bernhard, che è sia un drammaturgo che un narratore di grande profondità e complessità umana. La sua scrittura, sia nella narrativa che nella drammaturgia, assomiglia quasi ad una partitura musicale: frasi, reiterazioni, concetti che ritornano molte volte, e queste ripetizioni danno il senso della musicalità e dell’ossessività dei suoi personaggi, che talvolta sono parziali trasposizioni di se stesso. Bernhard è un autore spigoloso. Era da molto tempo che volevamo affrontarlo teatralmente. Lo spettacolo di quest’anno era il riallestimento, la nuova versione di quello nato nel 2017 con la produzione dell’Ert, e che per la stagione in corso è stato riprodotto e ripreso dal Centro Teatrale Bresciano. Siamo molto grati a queste due strutture, perché Thomas Bernhard non è un autore facile da distribuire, non è molto conosciuto dal pubblico, ed è un po’ temuto dalle direzioni dei teatri, ma al tempo stesso è un gigante con il quale è importante e bello potersi confrontare. Mettendolo in scena, abbiamo avuto la conferma che è un genio del teatro, oltre che della narrativa: ha un’altezza di scrittura dei personaggi paragonabile a quella Cechov e di Shakespeare, e non è così frequente, tra gli autori della drammaturgia contemporanea, trovare una tale ricchezza di stimoli, di sfumature, pur conservando pienamente le caratteristiche di un autore contemporaneo.

Prima della pensione è un testo lungo, lo spettacolo dura quasi tre ore ed è diviso in tre tempi, quindi richiede un tipo di fruizione che non è certo di quelle che oggi vanno per la maggiore. È uno spettacolo basato sulla parola e ci sono lunghi soliloqui o monologhi di due dei tre personaggi. Recitarlo non è certo una passeggiata, ma al tempo stesso è un’esperienza straordinaria. Nonostante l’apparente difficoltà, tutti i tipi di pubblico ne restano stregati, dagli adulti ai bambini, dagli addetti ai lavori al pubblico generico. E’ un testo molto tagliente: racconta di un fratello e due sorelle che vivono chiusi in casa. Lui, Rudolf, è un giudice di tribunale con un passato da vicecomandante delle SS ed è l’unico ad uscire all’esterno della vecchia casa in cui vive con le sue sorelle. La vicenda è ambientata negli anni ’70, ma nei tre personaggi c’è una forte nostalgia per il tempo passato del nazismo. Una delle sorelle, Vera, è la sua alleata e anche la sua amante, quindi si sente anche il peso e l’ambiguità di un rapporto incestuoso. Nel giorno del compleanno di Himmler, ogni 7 ottobre, Rudolf indossa la sua bella divisa da SS, Vera un elegante abito di paillettes e celebrano la ricorrenza con una cena, meticolosamente allestita da Vera, durante la quale a volte talvolta vestono Clara, la terza sorella, da deportata. Vivono nel ricordo idilliaco di questo passato terrificante. Oggi noi viviamo di continuo reminiscenze di intolleranze simili a quelle del periodo nazi-fascista. Ci sono stati addirittura tentativi di negare l’esistenza dell’olocausto, oppure chi è arrivato a dire: ma basta con questi ebrei! Si è trattato in realtà di un vero e proprio crimine storico, di una vergogna dell’Europa, e non è certo un caso se tanta produzione artistica, cinematografica, teatrale, radiofonica, è stata su questo argomento. La genialità di Bernhard sta nel fatto che questa spietata prospettiva storica è condotta in maniera molto originale, con l’introduzione di un rapporto familiare malato che diventa specchio simbolico di quello storico: i tre personaggi umanamente sono tre autentici mostri. E ciononostante Bernhard riesce a renderli non dico simpatici, ma riesce comunque a farci capire le loro ragioni e comprendere il loro dramma, raccontando di un’infanzia oltraggiata da un padre tiranno e da una madre debole e infelice che arriva a suicidarsi. Il coacervo familiare che si mescola con quello storico-politico fa la grandezza drammaturgica di quest’opera, che ha la stessa potenza di un testo classico, calata nella sua epoca ma pure senza tempo.

La claustrofobia di questi tre personaggi non ha però niente a che vedere con la clausura che stiamo vivendo oggi, perché per loro vivere ‘reclusi’ è una scelta volontaria e predeterminata: loro non vogliono fare i conti con un mondo esterno che è andato avanti rispetto al loro ideale, è mutato e non fa più parte della loro vita. È come se fossero delle mummie sopravvissute.

Un’altra grande qualità di questo testo è la sua ironia costante, in diversi momenti può addirittura risultare comico, anche se in modo agghiacciante. E fa ridere perché i personaggi sono talmente assurdi e ossessionati e hanno delle reazioni così vere e naturali, come quelle dei bambini, che si riesce a ridere anche dell’orrore. E questa è anche la grandezza di Bernhard: ridendo dell'orrore lo si giudica e allo stesso tempo ti entra proprio nella pelle.


Bucci: Tornando alla questione dell’eventuale collegamento di questo testo con la situazione attuale fatta di social e web, direi giocando che Bernhard era un anti-social, era impossibile intervistarlo, voleva starsene chiuso e riparato, non si fidava di come venivano trasposte le sue parole. Non perché fosse avaro di sé oppure ostile per principio, ma perché credeva a tal punto nell’autenticità e nella verità dell’atto artistico che non voleva rischiare di trasformare concetti vitali in chiacchiere di superficie. Era spietato con se stesso e con gli altri, molto rigoroso. Ma anche molto spiritoso e attento a quanto avveniva nel mondo. Anche la sua biografia è singolare: ha attraversato malattie e sfortune, ma è riuscito a tramutarle in arte, non si è mai lasciato abbattere. Nonostante il suo carattere schivo, o chissà, forse anche per questo, è sempre stato vicino al teatro. Ha capito subito quanto fosse importante immergere la scrittura drammaturgica nel mondo degli attori e dell’arte dal vivo. Come molti altri grandi drammaturghi era interessato agli attori, agli artisti, voleva capire come recepivano le battute, come le restituivano attraverso i loro corpi, voci, emozioni. Ne fa ritratti straordinari nei suoi testi, spietati e commoventi. Del resto è la differenza di qualità che si ritrova in ogni lavoro che fa tesoro della vicinanza e della compresenza, anche se non continua e non sempre necessaria. E poi c’è la capacità, molto potente in Bernhard, di saper leggere la storia e il presente. Bernhard è partito da un fatto di cronaca ed è riuscito a farne un'opera d’arte. Non è teatro civile, non è teatro di denuncia. Non c’è ombra di retorica, anzi. Prende ispirazione da un fatto di cronaca che lo tocca e da lì poi crea tre personaggi, tre fratelli che vivono chiusi nel cerchio delle loro abitudini perché temono il mutamento e l’esterno, vivono nel passato. Lo spirito di adattamento alla clausura può essere una qualità dell’intelligenza creativa, può amplificare la vita interiore, ma stare rinchiusi può anche restringere l'orizzonte e aumentare la diffidenza. Nonostante tutti i nostri mezzi di comunicazione, il mutamento, il fuori, l’altro possono spaventare un pochino di più. Si può cadere nella tentazione di individuare dei nemici. I fantasmi degli umani sono sempre gli stessi, e la lotta è sempre la stessa: cercare di trasformare la paura in apertura. Si tratta di trasformare l’istinto di sopravvivenza in un sentimento di fiducia e apertura studiando i difetti nostri e degli altri per esserne consapevoli; in questo Bernhard è un maestro. Anche se i personaggi paiono orrendi, sono resi talmente bene, con una partecipazione e una verità talmente potenti che a tratti ci si riconosce, si ride di loro, ma anche di noi stessi. Da qui arrivano il coraggio, il divertimento, il gusto e la possibilità di guardare in faccia i propri fantasmi. Tutti siamo possibili assassini, tutti siamo possibili conniventi con poteri forti e anche se condanniamo crimini e storture della storia, non è detto che allora saremmo stati in grado di ribellarci. Non erano tutti criminali i tedeschi che non sono riusciti a contrastare il nazismo. Molti di noi assistono sbigottiti e impotenti alle intemperanze di Trump, eppure guida uno dei paesi più potenti del mondo. Un autore come Bernhard ci sveglia, ci disillude, ci allarma, ci avverte. Abbiamo un compito importante: capire da dove vengono i fantasmi e i mostri che si stanno risvegliando oggi e quanto possano essere più forti delle nostre singole individualità. Per questo dobbiamo essere vicini e uniti per combatterli, condividere le paure per trasformarle e vincerle. Abbiamo sperimentato come possano essere di molti segni i dibattiti sulla libertà personale e quanto sia facile manipolare paure fondate come quelle che stiamo vivendo per farne strumenti di potere e di controllo. Abbiamo anche un altro compito importante, dal quale spesso siamo distratti: salvare il pianeta. È come se fossimo noi stessi un morbo pericoloso che sta mangiando e divorando tutto, anche il futuro vostro e di chi verrà dopo. Sembra retorica, ma è tutto vero e dimostrato. Ci hanno sempre detto “anche se ci fermassimo tutti ormai non si potrebbe più rimediare niente”. Invece stiamo vedendo come la natura sia pronta a reagire, autoregolarsi, automedicarsi soltanto se noi la aiutiamo un poco lasciandola fare. In questo testo, come in altre opere di grandi artisti del passato, ci sono riflessioni e risposte che riguardano anche i nostri dubbi del presente. Per questo nostro incontro sono andata a rivedere I Promessi Sposi, ma anche Tucidide, Boccaccio, Lucrezio, ognuno di loro ha una visione tutta sua del senso e delle conseguenze delle pestilenze. Anche quando vengono analizzate negligenze, responsabilità, ignoranza e stupidità nel reagire, l’elemento che più mi colpisce nell’elaborazione artistica è la capacità di aiutare a comprendere il punto di vista di ognuno, di indurre un sentimento di apertura e attesa: individuare le responsabilità, non significa innescare l’odio, ma generare speranza. Nel talento degli artisti, che non sappiamo cosa sia se non che appartiene a tutti e a nessuno, troviamo tanta energia per reagire alle avversità senza passare attraverso odio e accuse, ma usando la comprensione.


Sgrosso: Allo stesso tempo questi artisti ci insegnano anche a non avere paura nell’individuare le responsabilità, nel guardare in faccia le cose, chiamare i fatti con il proprio nome. E questa è una lezione di coraggio e di lealtà molto importante e per nulla scontata. Uno stato di libertà è garantito dalla volontà e dalla capacità di sapersi assumere le proprie libertà: è una garanzia di democrazia. Banalmente. È esattamente il contrario che volere la botte piena e la moglie ubriaca, ambizione purtroppo piuttosto diffusa… Agire con limpidezza e saper riconoscere i propri errori dovrebbe essere a regola. Nella situazione attuale, forse, se fosse stato fatto, non ci sarebbero stati così tanti morti e le nostre strutture sanitarie nella non sarebbero state sottoposte ad una pressione eccessiva rispetto alle loro possibilità, questo è oggettivo.


Si è parlato della possibilità di utilizzare altri canali per tenere in vita lo spettacolo dal vivo in questo particolare momento storico. Com'è possibile restituire e donare lo stesso patrimonio spirituale ed emozionale che è nell'esperienza teatrale attraverso questi canali? Come recuperare la fiducia nel teatro, mantenerla o rinnovarla in questo periodo di emergenza e assenza del teatro?


Bucci: Tutto l'incontro che stiamo facendo è una risposta a questa domanda. Stiamo sentendo il bisogno del teatro e stiamo cercando vie per praticarlo. Sicuramente la nostra arte ci ha insegnato ad avere un enorme rispetto dello scambio reciproco. Tutto quello che facciamo a distanza passa attraverso un microfono e un video dei quali non sappiamo testare la qualità, dobbiamo cercare di restituire le emozioni anche attraverso mezzi che non sono del tutto appropriati. Allo stesso tempo non bisogna escludere niente a priori, sperimentare qualsiasi mezzo con fantasia, ma sempre aspettando un ritorno a quello che è davvero lo spettacolo dal vivo, senza prendere facili scorciatoie, senza pensare di sostituirlo. Come non ci rassegniamo a vivere tutta la vita chiusi nelle case così non ci dobbiamo rassegnare a trasformare il teatro in video, anche se apparisse più comodo e meno dispendioso. Quindi che cosa possiamo fare per ora? Possiamo coltivare sogni e utopie, possiamo ascoltare i nostri talenti dormienti, possiamo informarci, possiamo diventare delle creature il più possibile reattive, preparate, pronte, agili, per riuscire poi a ricostruire il teatro e il senso degli incontri. E’ bene osare proporre, elaborare idee e progetti: possiamo essere di aiuto con la nostra competenza. In questa situazione nuova ogni apporto è utile. Alcuni giovani ricercatori di Brescia hanno creato in 3D dei respiratori che non si riuscivano ad avere altrimenti. Non ci sono limiti alla possibilità di creare, agli orizzonti che si possono aprire. E’ una responsabilità davvero entusiasmante. Se non riusciamo ad essere un popolo unito nell’affermare la necessità dell’esperienza dal vivo (che non si risolve aprendo qualche libreria), il rischio è di una clamorosa regressione e di essere scippati del nostro autentico bisogno di fare e vivere arte. Le televisioni possono fare prodotti bellissimi, certamente, ma non sostituirsi al teatro, ai concerti, alla danza, alla narrazione. Il teatro è nato con l’uomo e con l’uomo finirà, ce lo dimostra la storia. Rinunciare a questo significa rinunciare ad una parte di noi.


Se accade questo però la responsabilità è anche un po’ del teatro? Nel senso che negli ultimi anni c’è stato forse un avvicinamento del teatro, della drammaturgia contemporanea, nel suo modo di esprimersi, alla televisione, alla serie tv; un appiattimento del teatro su quel tipo di linguaggio. Forse il teatro stesso deve stare attento a non prendere questa “deriva” e a dimostrare la sua unicità di linguaggio artistico diverso dagli altri?


Sgrosso: Nel chiuso delle nostre case ognuno di noi può sviluppare le proprie ossessioni. Sappiamo, ad esempio, che questo periodo di quarantena sta comportando un aumento dei casi di depressione, un incremento delle violenze domestiche, soprattutto purtroppo sulle donne… Stare chiusi può essere necessario, ed in questo caso non avevamo scelta, ma non è naturale e non necessariamente è bello. Quindi trovo piuttosto strumentale e disonesta l’ossessività con cui è stato diffuso questo messaggio. Non perché non fosse necessario, ma – ancora una volta – sarebbe stato più corretto sottolineare la necessità di questa forma di sicurezza senza bisogno di infiorettare la pillola con esternazioni spesso al limite del ridicolo. Riguardo al teatro, il concetto basilare è che si tratta di una forma di socialità, assieme ad altre forme anche non artistiche, che non possono e non devono essere sostituite da inefficaci e dannosi surrogati. E mi spingo a dire che, qualora il periodo di lockdown dovesse prolungarsi ancora per molto tempo, sarebbe forse opportuno a un certo punto farne sentire la mancanza del teatro, proprio perché non sia svilito il suo valore di strumento sociale e culturale. Il teatro dal vivo non si può fare? Il video non è una soluzione, e allora semplicemente non si fa. Si aspetta che passi la bufera e intanto se ne coltiva il desiderio.

Dobbiamo stare molto attenti che questo distanziamento sociale, pur necessario, non alimenti una distanza etica e umana. Non dovremmo mai dimenticare che siamo tutti sulla stessa barca, se io sono un possibile untore, lo sei anche tu. E questa circostanza, in una società correttamente civile, dovrebbe produrre soltanto solidarietà e non distacco. Si sono invece visti, purtroppo, ancora, episodi di persone che hanno denunciato altre per averle viste fuori casa, senza neppure conoscere le ragioni. Ed in ogni caso. La delazione è sintomo di bassezza umana, sempre e comunque. La storia dell’uomo ce lo insegna, eppure accade oggi come accadeva ieri. Il momento presente che stiamo vivendo, come ha generato tanti begli episodi di solidarietà, ha anche permesso di riemergere a tante bassezze umane, e di questo tutti noi dobbiamo renderci conto, altrimenti non avremo una visione lucida dello stato delle cose. Il fatto che siamo rimasti chiusi in casa, tutti per la stessa emergenza, non vuole affatto dire che siamo diventati di colpo solidali e buoni, gli uomini sono esattamente come erano quando si poteva uscire, sicuramente c’è chi ha saputo fare esperienza di questa condizione straordinaria, ma sarebbe un errore credere che l’emergenza dovuta a questa pandemia abbia davvero insegnato qualcosa a tutti. La clausura può aiutare a capire molte cose perché è una situazione straordinaria, e di questa opportunità dovremmo fare tesoro piuttosto che cercare facili e immediate scorciatoie per ritenerci più soddisfatti. Non dobbiamo cadere nella trappola di dire “possiamo fare tutto dentro, non abbiamo bisogno del contatto sociale”, non è così! Bisogna sperare che al più presto si possa tornare allo stato reale di certe condivisioni, la cui importanza è fondamentale per l’equilibrio civile e sociale. Un esempio banale: se io mi innamoro di una persona, sostituirla con un’altra persona non è una soluzione, può essere soltanto un palliativo, perché il mio cuore continuerà a battere per quell’altra, fino a che durerà, naturalmente, quel sentimento.


Bucci: Riguardo alla questione delle responsabilità del teatro e al suo inseguire cinema e televisione: perché dovremmo sempre immaginare i mezzi di comunicazione e le modalità artistiche come alternativi uno all’altro e non come complementari? Ad esempio quello che stiamo facendo ora è fantastico: ci troviamo a discutere e a ragionare di come rifondare leggi, di che cosa significa l’arte, del nostro rapporto col potere, con la salute, con gli altri, stiamo risalendo a domande fondamentali. Questo lavoro, molto interessante e possibile soltanto per l’esistenza dei computer, tuttavia non è sostitutivo dell’arte.

Si è detto che il teatro ha cercato di imitare il cinema e la televisione e concordo, è accaduto, forse per ottenere qualche replica in più. Ma vorrei affrontare una questione più scomoda e per la quale non ho risposte: Il mondo del teatro, per lo meno quello che io conosco, non era così sano, prima che si entrasse in questo tempo sospeso: le decisioni sulla programmazione, sulle repliche, sui finanziamenti venivano prese non sulla base delle domande o del gradimento del pubblico, non per la qualità degli spettacoli, ma assecondando un certo conformismo che spesso non corrispondeva più alla realtà artistica. Si ripescavano star dismesse della televisione e del cinema per affidare loro ruoli da protagonista nella speranza di attirare il pubblico con poca fatica. Molti ragionavano secondo vecchie logiche di mercato e con l’idea che il pubblico fosse stupido e che bisognasse offrirgli quello che voleva, ma spesso sbagliando a immaginare i suoi desideri. E se invece ci interrogassimo su che cosa ci piace davvero, su che cosa esiste di bello, su che cos’è l’arte, se provassimo a investire su questo? Chissà cosa succederebbe? Incassare molto, in fretta, senza lavorare sulla promozione della qualità, ma su prodotti facili da vendere: anche parte del mondo del teatro stava ragionando così. Oppure si era costretti al sistema degli scambi, indipendentemente dalla qualità. Questo discorso pare deprimente, ma non lo è se lo si affronta.

Nonostante tutto questo il teatro italiano ha una vitalità potente: ci sono artisti, attori, scrittori, drammaturghi, registi, creatori di luci e di suono, ma anche direttori e organizzatori straordinari. In questo somigliamo ai ricercatori, tanto bravi quanto precari. Eravamo e siamo ancora ammirati in tutto il mondo per la nostra arte, ma che cosa ci è accaduto? Possiamo fare un passo indietro e ricominciare? oppure un passo avanti e lasciare certi errori dietro le spalle?

Prima della pandemia la crisi economica e culturale stava portando a chiudere anche i più piccoli spiragli di libertà e di programmazione autonoma. Certamente ci auguriamo che questo stato di cose finisca presto, ma potremmo trasformare questa frattura in opportunità, non tornare indietro, non lasciare tutto come prima, ma provare a scegliere quello che è sano, che è vero, che è autentico.


Abbiamo affermato che la tecnologia non potrà mai sostituire l’arte dal vivo perché manca la condivisione di qualcosa tra uomo e uomo. Il teatro in futuro potrà utilizzare questi mezzi a favore di una collaborazione, utilizzare la tecnologia per poter arrivare a più persone, per portare più persone a teatro?


Bucci: Assolutamente sì. Ad esempio, Rai 5, almeno con noi, ha fatto un ottimo lavoro: delle troupe agili ma molto competenti, formate da persone appassionate e brave sono venute nei teatri dove lavoravamo, ci hanno fatto interviste intelligenti e originali e riprese di alta qualità dello spettacolo. Questo tipo di lavoro aiuta molto a fare conoscere il teatro senza tradirlo. Una delle ultime volte che sono venuti da noi, una regista ci ha confidato che temeva che il tempo dedicato al teatro sarebbe stato ridotto, nonostante gli ottimi esiti di ascolti. Mi è sembrato assurdo e mi sono domandata come chiedere più teatro in televisione: non riprese di spettacoli, ma interviste, approfondimenti, prove. Forse sono ottimista, ma penso che oggi sia decisivo esprimere apertamente il proprio gradimento, i propri desideri. Almeno potremo raccontarci di avere tentato. Dobbiamo chiedere quello che vogliamo, ne abbiamo il diritto: la Rai è uno strumento pubblico che deve avvicinarsi anche al teatro, per molto tempo dimenticato. Facciamo sentire le nostre voci ai direttori delle televisioni, ai direttori dei teatri, esprimiamoci quando una cosa ci piace, quando una cosa ci manca, quando ci vengono delle idee, chiediamo alla televisione di seguire il teatro, non solo attraverso Marzullo, o attraverso i nomi e gli eventi più noti, già molto seguiti. Esistono tanti tipi di teatro e di arte e il grande pubblico ha il diritto di conoscerli.

Credo che abbiamo bisogno di tutto il teatro, quello che respira in una sala da trenta persone, così come quello che vive in una da cento, da cinquecento, da diecimila; il musical, la drammaturgia contemporanea, i testi classici riletti e rivisti, gli esperimenti con la musica e la danza, sono tutte voci di un’unica arte e tutte hanno il diritto di esistere e il giusto spazio. Chiediamolo. Gli artisti a volte fanno un passo indietro, non chiedono per non diventare questuanti e lamentosi, ma se siamo supportati dagli studenti, dal pubblico, da chi ama queste arti, possiamo fare veramente una benefica rivoluzione. Credo che sia un momento nel quale bisogna avere fiducia nei propri desideri autentici, nell’esprimere quello che desidera e si crede giusto anche se ci si sente fuori dal coro.


Qual è il ruolo dell’arte nei meccanismi sociali oggi? Siamo di fronte a delle grandi contraddizioni: da una parte c’è una frenesia, un’urgenza di fare, di mantenere attive delle discussioni attorno all’arte e dall’altra invece le istituzioni e i meccanismi economici sembrano non curarsene abbastanza. C’è un abisso fra questi due mondi: come potranno tornare a dialogare, sarà possibile? Anche prima della crisi la dimensione dello spettacolo e del teatro era un po’ abbandonata alle proprie forze, non c’era particolare attenzione e sostegno nei suoi confronti.


Sgrosso: Io spero davvero che le strutture dello spettacolo dal vivo riaprano non troppo tardi, perché se ciò non accadesse, vorrebbe dire o che la situazione sanitaria è veramente drammatica, oppure – e questo sarebbe forse anche peggio - che ci troviamo di fronte ad una gestione di questa emergenza davvero inconsapevole. È chiaro a tutti che la vita deve ricominciare, con le difficoltà che la riapertura certamente comporterà e con una nuova capacità di adattamento da parte di ognuno di noi alla situazione presente.

Ricominciare a vivere nella ‘normalità’ è necessario non soltanto per contenere i problemi economici connessi al lockdown, ma anche per quelli sociali. Sulla gestione della situazione di teatri e cinema ho grandi perplessità: per quale motivo è concesso frequentare con ingressi contigentati un supermercato o un ristorante e non un teatro o un cinema? Chi mai in un cinema si mette a sputacchiare addosso a qualcun altro? Per il teatro, che ovviamente è il settore che mi sta più a cuore perché si tratta della mia professione, capisco che possa rappresentare un problema la necessità del distanziamento degli attori, dei musicisti, dei tecnici e di tutti coloro che agiscono sul palcoscenico. Ma per quanto riguarda biblioteche, musei e cinema, dov’è il problema di immaginare ingressi e presenze dilazionati? Se è possibile in un negozio, perché non in un museo? Il problema è forse la diversa importanza riconosciuta da un governo alle diverse categorie sociali e professionali. Dieci giorni fa ho sentito che in Germania si prevede una riapertura dei teatri a metà luglio, che in Svezia la chiusura dei teatri ha generato un profondo sconforto nei cittadini, mentre qui in Italia c’è chi dice che “l’intrattenimento” non è una priorità e non si capisce se si prevede una riapertura a settembre o addirittura a dicembre o gennaio. Da questo si capisce il valore che un governo dà alle sue strutture. In quasi tutti gli altri paesi europei c’è un rispetto assai maggiore per la cultura. In Francia gli artisti sono protetti dallo Stato perché tutti riconoscono il valore che ha la cultura. In Italia probabilmente i teatri saranno gli ultimi ad riaprire ma almeno si cominci a ragionare su come farlo. Simili decisioni fanno parte della responsabilità di gestione della vita pubblica che abbiamo attribuito al nostro governo e alla sua capacità o meno di valutare l’importanza sociale dei diversi settori. In ogni caso, io sono fiducioso che, come è accaduto nel dopoguerra con una nuova esplosione di vitalità, così a un certo punto, nel momento in cui si sarà calmata l’emergenza sanitaria, riacquisteranno il valore determinate che hanno attività che sono state congelate per via del panico, ma che in realtà fanno parte delle necessità quotidiane di ognuno.


Bucci: Sposto un pochino la riflessione, penso: quanto per fare le cose che più mi interessavano ho delegato ad altri quella parte di pensiero, di attività che ogni cittadino dovrebbe dedicare alla polis? Ogni cittadino ha una responsabilità civile e politica molto forte. Quanto ho lasciato correre? Siamo in un momento nel quale non possiamo più delegare, dobbiamo informarci, capire che cosa realmente sta succedendo e crearci il nostro punto di vista preciso. Siamo di fronte a qualcosa che nessuno conosce, il virus certo, ma anche una crisi planetaria mai attraversata prima. Si fatica a trovare delle soluzioni ed è per questo che ognuno deve partecipare, come sostegno e aiuto. E’ come se tutto il mondo, rispondendo in modi diversi, si stesse interrogando sulle stesse questioni, si ponesse domande fondamentali sull’esistenza e sul futuro. L’emergenza globale è precedente al virus e ha messo soltanto in evidenza fratture già evidenti tra poveri e ricchi, paesi in guerra e in pace, sani o malati.

Certo abbiamo subito uno shock che ci ha svegliato. Eravamo in scena a Torino l’ultimo giorno di apertura dei teatri, e da un momento all’altro ci siamo resi conto di essere stati i primi ad essere lasciati a casa, in una situazione assurda. Ci siamo spostati, per fare le prove in attesa di capire cosa sarebbe successo, a Brescia che è stato uno dei focolai più grossi e con il maggior numero di morti. Era il 24 di febbraio, ma non era ancora stata percepita la gravità della situazione: erano aperti i bar fino alle 18,00, i ristoranti, le palestre, le bocciofile, che poi si sono rivelate pericolosi focolai, come le case di riposo. Al di là del rischio evidente di contagio, mi viene da pensare che chiudere i teatri e i cinema per primi sia stato quasi un atto simbolico, un grido di allarme lanciato alla comunità. Anche se eravamo consapevoli della stranezza della situazione, vedendo ad esempio i ristoranti e i negozi aperti, abbiamo cercato di capire velocemente cosa stava succedendo e non abbiamo protestato per rispetto degli ammalati, di chi li doveva curare e dei morti che poi sono diventati tanti. Abbiamo avuto come una sorta di pudore nel parlare, nel chiedere chiarimenti, lo stesso che abbiamo ora, pudore che spesso il mercato non ha. Lo dimostrano le pubblicità dei prodotti in tv, che velocemente sono cambiate, si sono adeguate al clima facendo propri i valori della sanità, dei cittadini e che con voci sempre molto dolci ci invitano a stare tutti vicini e uniti, ma comprando. Una forma di pornografia, credo. E mi tornano in mente i Promessi Sposi, dove sono già raccontate con chiarezza le relazioni tra la gestione del potere e la realtà, le bugie e i desideri. Quanto ci aiutano la cultura, la storia: rileggere Manzoni, Lucrezio, la poesia di un testimone della peste a Gela nel 233 a. C. Ci sentiamo in buona compagnia nel cercare di attivare il nostro pensiero e il nostro sentire, anche se immersi nelle urgenze del presente.

Il teatro ci insegna in ogni momento che occorre ascoltare tutti, rispettare i bisogni di tutti, al di là dei numeri, che paiono governare su tutto. Abbiamo bisogno di mangiare, di un abbraccio, di calore, di conforto, ma anche di essere messi di fronte alla verità, anche se può risultare cruda e dolorosa. Rinunciare a questo potrebbe trasformarci in polli nelle loro stie, senza colpevoli, solo a causa della nostra incapacità di dire, della nostra volontà di tacere, di omettere di esprimere il nostro pensiero. Esserci, esserci, esserci, non esimersi. Anche questo è lottare per il proprio teatro, per la ragionevolezza, l’ampiezza dello sguardo, perché siano rispettate le visioni di tutti. Ragionare in equilibrio sarà molto difficile adesso e anche nel futuro, se ci sarà la grave crisi economica che si prevede. Ci sarà chi dice “Voi pensate al teatro e la gente muore di fame”. Ma se c’è tanto malessere in un’epoca dove in realtà abbiamo fatto tante scoperte, abbiamo la scuola per tutti, abbiamo moltiplicato le opportunità e allungato la vita, forse è anche perché abbiamo un rapporto distorto con l’arte e le sue potenzialità. Liberare l’immaginazione, creare, sognare, inventare utopie, sentire insieme e riflettere sui misteri della vita e della morte dai quali siamo tutti toccati, sono bisogni fondamentali sia per la vita concreta che per quella dello spirito. Rinunciare all’armonia complessa degli esseri umani mi sembra una terribile rinuncia per la quale si paga un prezzo molto alto di infelicità.


Nella vostra drammaturgia originale Ottocento che avete portato in scena l’anno scorso al Palladium avete dato voce a grandi protagonisti della letteratura e dell’arte romantica come Edgar Allan Poe, Cechov, Emily Dickinson. In un dialogo immaginario che cosa pensate che avrebbero detto su quello che sta succedendo in questo periodo?


Bucci: Emily Dickinson a un certo punto della sua vita si chiude in casa, nella sua stanza, e non esce più: è come se avesse bisogno di distanziarsi dagli esseri umani per imparare a comprenderli e ad amarli di più, per conoscere davvero se stessa. È una figura misteriosa, misconosciuta in vita e ora molto famosa. Che scherzo della storia! Il suo maestro di scrittura, che la riteneva un po’ tocca, non se lo ricorda più nessuno mentre il ritratto di lei è riprodotto in tutto il mondo, conosciuto anche da chi non ha letto le sue poesie. A partire da questo si aprono molte riflessioni sul presente. Cechov è stato un medico che amava la medicina almeno quanto la letteratura. Nonostante fosse di salute molto cagionevole, infatti morì giovane di tubercolosi, affrontò un viaggio tremendo verso l’isola di Sachalin dove c’era una colonia penale, per verificare le condizioni di vita dei prigionieri e scriverne. Ha rischiato la propria vita per vedere con i suoi occhi e testimoniare. I protagonisti di molti dei suoi racconti sono persone umili, di solito in ombra, antieroi. Sono due artisti che avrebbero narrato, sviscerato, distillato tutto quello che di potente c’è in un’esperienza come questa. Ci insegnano anche la forza dell’originalità e della libertà. Edgar Allan Poe invece ha rivolto lo sguardo alle paure, gli orrori, i fantasmi dell’interiorità, e li ha trasformati in racconti, in un epica che tutti possiamo condividere, senza vergogna. La loro lezione, se tale può chiamarsi, sta nelle loro opere, senza alcuna pedanteria. Possiamo leggerle e rileggerle: troveremo altri significati e ispirazioni, proprio come cambia il presente e come cambia nel tempo il nostro sentire. Alcuni grandi artisti sono riusciti ad avere uno sguardo talmente lucido, interrogativo e partecipe del loro tempo che continua a illuminarci. Erano tormentati dalla possibilità di essere sciatti, di dimenticare, di non essere presenti a se stessi e alla realtà, tant'è che l’hanno dovuta trasformare in arte.


Sgrosso: L’Ottocento è un secolo straordinario proprio per la rinascita delle capacità dell’uomo, noi lo abbiamo raccontato privilegiando il punto di vista letterario, attraversando personaggi e autori, ma è stato anche un secolo di grandi e fondamentali scoperte: la ferrovia, la rivoluzione industriale, la luce, la radio… è stato un secolo modernissimo, che ha segnato la fine di alcuni privilegi sociali e confini geografici, il secolo che ha visto la realizzazione dell’unità d’Italia. E’ difficile immaginare cosa avrebbero detto quegli autori della situazione odierna, perché la maggior parte di loro ha vissuto molto intensamente il proprio secolo, che è stato un secolo di rivolgimenti in moltissimi campi della vita sociale, e nello stesso modo, anche se con accadimenti diversi, è quello che stanno facendo ora gli autori e gli artisti contemporanei. Probabilmente nessuno di loro avrebbe mai immaginato la possibilità di proiettarsi in una videochiamata in questi nove schermi come stiamo facendo noi adesso… Emily Bronte sarebbe certamente impallidita all’idea che qualcuno avrebbe potuto raggiungerla ‘dentro’ casa e violare la sua preziosa intimità, e non è certo l’unica del gruppo… ma non dimentichiamo che Leonardo da Vinci, e quindi molto prima dell’800, aveva già cominciato a progettare come volare! Gli artisti, o per lo meno alcuni di loro, hanno una misteriosa marcia in più… che è giusto e bene che rimanga segreta!


Bucci: Però provate a pensare a che cos’è la poesia se non mettersi a nudo completamente! La Bronte nelle sue poesie è ardita, appassionatissima, attitudine molto rara e coraggiosa in quel tempo, specialmente per una donna, tant'è che a volte queste autrici usano degli pseudonimi maschili per poter scrivere in pace, senza critiche, oppure per essere prese in considerazione. La stessa George Sand afferma che se non avesse scelto un nome maschile nessuno avrebbe aperto i suoi libri. A volte anche gli stratagemmi sono onorevoli, dipende dal loro fine.


Sgrosso: Sicuramente se Cechov fosse vissuto oggi… lui che per il suo straordinario viaggio in Siberia ha dovuto alternare carrozza, piedi, barconi e treni, e che svolgeva la sua professione di medico visitando anche malati che non avevano soldi per curarsi, e che affrontava prove pericolosissime per la sua salute cagionevole… se fosse vissuto oggi, ecco, sicuramente avrebbe sul volto tutti i segni viola della mascherina indossata ad oltranza…


A proposito di queste clausure, di queste stanze ci veniva in mente anche Virginia Woolf con la sua stanza tutta per sè.


Bucci: La stanza tutta per se di cui parla Virginia Woolf rappresenta la necessità e il diritto di ogni essere umano di sentirsi libero, padrone del suo tempo e del suo spazio, di non essere interrotto, di essere rispettato nel suo processo creativo, nella scoperta di quello che può dare agli altri con il suo particolare talento. A dire il vero parla anche di una cifra di denaro, necessaria alla libertà di creare. Approfittate di questo tempo per leggere Una stanza tutta per sé, anche ad alta voce. In mancanza del teatro è come se la parola ad alta voce creasse in un lampo un micro-teatro personale, si anima e viene compresa diversamente, è molto potente. Bisognerebbe conservare anche in futuro l’abitudine, che una volta era assai diffusa, della lettura ad alta voce. Le parole, passando attraverso corpo e voce, amplificano la loro capacità di trasformare, di amplificare la comprensione. Accade sia da soli che insieme ad altri.

E ancora riguardo allo spettacolo Ottocento, un’ultima cosa: abbiamo scelto di creare questo spettacolo anche per sfatare i diffusi pregiudizi che inducevano a pensare all’Ottocento come un secolo polveroso, vecchio, pesante. Ci siamo innamoratati ancora di più dei suoi artisti, della sua storia: in quel tempo ci sono molte radici di quello che siamo ora, anche quelle che paiono dimenticate.


Siamo giunti al termine di questa ricca mattinata, vi ringraziamo per essere stati così disponibili e speriamo di rivedervi presto in scena.


Sgrosso: Speriamo davvero!


Bucci: Per me una mattinata come questa restituisce molto senso a questi strumenti digitali!

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