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Fabrizio Crisafulli. Luci e ombre sull'arte e sul mondo.

Aggiornamento: 4 mag 2020

a cura di Annalisa Fania, Aurora Colella, Simona Silvestri, Eugenia Granchelli, Edoardo Proietta, Giulia Panza, Andra Bai, Alessandra De Luca, Alessandra Zoia

foto di Chiara Era, da Corpoluce


Regista, artista visivo, creatore di installazioni, con una formazione in architettura: è difficile trovare un’unica parola per definire ed inquadrare la figura ed il lavoro di Fabrizio Crisafulli, uno tra i più importanti innovatori del panorama artistico italiano.

Fabrizio Crisafulli avrebbe dovuto portare in scena al Teatro Palladium a fine marzo, all’interno della rassegna Il paese fertile - ricerca teatrale al DAMS dell’Università Roma Tre, il suo spettacolo Corpoluce, fatto con Alessandra Cristiani. Abbiamo cercato di avvicinarci attraverso le sue parole a questo spettacolo, lo abbiamo usato come pretesto per attraversare e approfondire gli elementi peculiari e fondanti della sua ricerca e produzione artistica: la luce e il teatro dei luoghi. Abbiamo riflettuto su come questi elementi possano dialogare, modificare ed essere modificati dallo strano tempo di distanziamento sociale che stiamo vivendo; abbiamo cercato di fare luce sul futuro dell’arte che si pone, oggi come non mai, come una sfida incredibilmente grande da affrontare.


Luogo come matrice di tutto. Nel suo lavoro è fondamentale la relazione con il luogo dell’azione scenica, inteso sia come spazio fisico ma anche come gruppo di persone che lo abitano. Sappiamo che è uno tra i più importanti innovatori di questa relazione. Nella situazione attuale siamo privati dello spazio scenico e costretti in casa. Necessariamente per la ripresa si dovrà ripensare il modo di gestire gli spazi teatrali, e anche il modo di relazionarsi degli spettatori con questi spazi e tra di loro. Molto probabilmente la creazione artistica sarà influenzata da questa necessità, pensa che questo possa diventare uno stimolo per la creazione o un limite?


Proprio in questi giorni sto facendo un’esperienza particolare: a causa della pandemia ho dovuto convertire il laboratorio sul teatro dei luoghi, che avrei dovuto tenere al DAMS di RomaTre, in un laboratorio online. Una soluzione apparentemente improbabile. Ma ho pensato di far lavorare i ragazzi sul luogo della loro quarantena, quindi sulla stanza o la casa nella quale si trovano attualmente, chiedendo loro di propormi un “atto poetico”, in una forma che elaboreremo assieme durante gli incontri online, a partire da quel luogo e dalla situazione che stanno vivendo. Non ci avrei pensato se non ci fosse stato il coronavirus, ed ora sono molto stimolato da questo progetto, e, dalle prime reazioni, mi sembra che anche i ragazzi lo siano. In linea generale, i limiti servono. Anzi, per la creazione teatrale direi che sono necessari: costituiscono quella parte non voluta da noi con la quale è indispensabile confrontarsi; costituiscono la “realtà”. Quando si lavora con un luogo, ad esempio, si opera sempre, necessariamente, anche con i limiti che pone, che non sono solo fisici. Non è detto che la situazione restrittiva in cui viviamo adesso e in cui probabilmente continueremo a vivere per un po’, non possa generare nuove possibilità. Voglio essere fiducioso anche sul fatto che riusciremo a trovare delle soluzioni per superare le grandi difficoltà in cui il teatro si trova in questo momento.


La luce è una tra le più importanti protagoniste dei suoi lavori. Non abbiamo potuto vedere Corpoluce al Palladium, ci può raccontare in breve il ruolo che la luce riveste in questo lavoro? E quale invece il corpo?


Corpoluce è uno spettacolo creato assieme ad Alessandra Cristiani, danzatrice straordinaria con la quale ho lavorato spesso, essendo stata lei interprete in passato in alcuni miei lavori. Questa è una performance che invece abbiamo proprio creato assieme, mettendo a collaborare tra loro essenzialmente due elementi: la luce, che è così importante per me, e il suo lavoro di danza.

Per inquadrare questo lavoro nel tipo di ricerca che conduco con la luce, vi dico prima qualcosa sulle ragioni del mio grande interesse per questo elemento. La luce è forse ancora oggi, nel suo uso comune in teatro, l’elemento più trascurato: quello che meno degli altri ha messo a punto le proprie prerogative poetiche. In linea generale, il suo linguaggio, le sue capacità di dire, sono stati sviluppati poco. È abbastanza paradossale, ad esempio, che essa di solito, nella costruzione di uno spettacolo, arrivi all’ultimo, solo nella fase di rifinitura, mentre nella realtà è un elemento primo, generativo, che sta all’origine delle cose. È una strana secondarietà questa. Bisogna ridare alla luce la sua importanza e la sua energia. Questo non significa che sia indispensabile usare molta tecnologia; si potrebbe dare importanza alla luce anche usando solo una candela.

Succede anche che in teatro la luce venga distratta da sue qualità sostanziali; che venga fatta appartenere, ad esempio, quasi esclusivamente alle dimensioni della tecnica e dell’immagine, trascurando altre dimensioni che le sono proprie, come il tempo, il senso, il discorso (la luce è capace di sviluppare propri “discorsi” autonomi, come la musica), la drammaturgia, l’azione. Lo scarso rilievo che viene dato alla luce rispetto al senso di tutto il lavoro è un altro paradosso, se si pensa al ruolo di primissimo piano che ha nel pensiero: nella filosofia, nell’estetica, nella teologia, nella mitologia.... È proprio pensando a questo tipo di incongruenze che ho iniziato la mia ricerca registica. Alla fine degli anni Ottanta cominciai a condurre dei laboratori con i miei studenti, che mettevano in campo la luce come elemento primo della creazione scenica. Realizzando spettacoli senza testo e senza attori, fatti di sola luce, oggetti, spazio, suono. Non perché avessi qualcosa contro il testo e gli attori, ma perché mi sembrava necessario sperimentare con la luce anche autonomamente, così come fa un musicista nel proprio studio con il suono o come fa un attore in sala prove; per poter rendere il linguaggio della luce scenica sufficientemente articolato da sviluppare una propria presenza poetica ed entrare in relazione con gli altri linguaggi in maniera complessa e matura.

Il lavoro creato con Alessandra, che avremmo presentato nella rassegna del Palladium se non ci fosse stata l’emergenza sanitaria, si basa su una relazione essenziale tra il corpo e la luce. Vi ho utilizzato una tecnica che avevo sperimentato in una serie di laboratori che avevano come assunto affermazioni del tipo: “meno luce hai, più puoi vedere”, o “meno luce hai, più puoi creare con la luce”; che erano anche una presa di posizione contro la tendenza a credere che la complessità di un progetto-luci dipenda dalla quantità di apparecchi che si impiegano, trascurando un’altra complessità, che è quella dei molteplici esiti che la luce genera nel suo incontro con le persone, le cose, i luoghi, come ci insegna del resto la natura, dove la fonte è unica, e quelle relazioni sono infinite.

C’è un passo bellissimo, nello Zibaldone, nel quale Leopardi descrive a lungo l’infinità dei modi nei quali la luce viene riflessa dalle cose o da esse viene modificata, in momenti nei quali non si vede la fonte di luce, il sole o la luna. Ecco, Corpoluce si basa sulla complessità delle situazioni che si creano in relazione al modo nel quale la luce viene riflessa o modificata da quello che incontra. Nel nostro caso a rifletterla e modificarla è in primo luogo il corpo nudo in movimento di Alessandra, anche se naturalmente nella relazione con la luce è coinvolta anche la scena. Il lavoro è lo sviluppo di una performance di mezz'ora nella quale avevamo utilizzato la tecnica cui ho fatto riferimento, che consiste nel far attraversare lo spazio da una sottilissima parete di luce data da due apparecchi di taglio, invisibile finché non viene riflessa da qualcosa. Intercettandola con la propria danza, Alessandra dava luogo a una serie di relazioni dinamiche tra il corpo e la luce che creavano continuamente immagini diverse e imprevedibili. Come se il corpo e la luce si trasformassero a vicenda. La luce era fissa ed era pochissima – solo due fonti da 250w, filtrate da mascherini che facevano passare due sottili linee luminose che si incontravano nello spazio – ma quello che si creava nel rapporto con la danza era tantissimo. Ciò che importava non era la quantità di sorgenti, il numero di apparecchi, ma il modo nel quale la luce entrava in relazione con il corpo.

Da questo primo pezzo abbiamo sviluppato un lavoro di un’ora, nel quale il rapporto danza-luce è più articolato nello spazio. C’è un continuo apparire e scomparire di linee, con le quali il corpo di Alessandra si incontra e si scontra, e che in relazione ad esso e alla scena assumono valenze diverse di volta in volta: sono limiti, ma allo stesso tempo orizzonti; e sono fessure, ferite, spade, lance, in rapporto a quello che fa Alessandra e all’immaginazione dello spettatore. Come dice Alessandra rispetto alla sua danza, Corpoluce è uno spettacolo di fenomeni.


Nella sua pratica artistica performance e arte contemporanea visiva sembrano essere un tutt'uno. Nel suo processo creativo esiste un confine netto tra questi due territori o uno invade e si nutre dell’altro in un continuum?


In realtà, quasi non sento la differenza tra un territorio e l’altro, perlomeno nelle motivazioni. Naturalmente cambiano le questioni e il tipo di lavoro, perché in un caso si opera con i performer, nell’altro no; ma certi principi di fondo sono simili. Tendo a considerare, per esempio, le mie installazioni teatro, anche se non ci sono attori. Non solo perché hanno generalmente uno sviluppo temporale, una componente sonora e una struttura assimilabile ad una drammaturgia, ma perché traducono un’energia, quella dell’autore e di chi vi lavora, che è un’energia di tipo teatrale, performativo. Sento quei lavori come di prolungamenti del “gesto” di chi le crea.

Con i laboratori che ho iniziato a fare negli anni Ottanta, mi sono abituato ad applicare alle cose e alla luce una capacità di dire simile a quella di un performer, a considerarli entità con un’anima, e non come elementi da manipolare o sottomettere tecnicamente. Tendo sempre ad attribuire potenzialità di “azione” anche agli oggetti e alla luce.

Di converso, non è detto che un certo tipo di lavoro con la luce sia indispensabile. Non è il mezzo che conta. Quando ho realizzato performance all’aperto, di giorno, dove non c’era uso di luce artificiale, non mi sono quasi accorto di questa mancanza. Seguivo comunque i miei principi di fondo. Mi è capitato che mi chiedessero: «come hai fatto a lavorare senza la luce, che è l’elemento che prediligi?». E’ vero, non c’era la luce artificiale, ma c’era quella del giorno, e con i performer la usavamo in un certo modo. La questione non sta tanto nel medium che si usa, ma in quello che si fa, qualsiasi siano gli strumenti impiegati.


Quindi per forza di cose anche un’installazione o uno spettacolo di luce nel suo lavoro vanno considerati organismi vivi?


Assolutamente sì. Quando qualcuno allude al fatto che degli spettacoli senza persone, di sola luce, come quelli che ho fatto per tanto tempo con i miei laboratori, implichino addirittura una specie di assenza di umanità (!), penso: ma non sono esseri umani quelli che hanno pensato, montato, realizzato e fatto funzionare il lavoro in scena? I tecnici e gli operatori dietro le quinte non sono persone? Allora dovrebbe essere lecito dire la stessa cosa di uno spettacolo di marionette...


In questo particolare momento storico la tecnologia si sta dimostrando un mezzo importante per la trasmissione e fruizione dello spettacolo dal vivo (streaming, tv, ecc.), pensa che questa modalità possa sostituire l’esperienza teatrale, possa farle del bene o danneggiarla?

Si possono inventare invece, secondo lei, attraverso la tecnologia dei modi per dare vita a delle esperienze artistiche partecipate a distanza e in spazi anche non teatrali che non prevedano la semplice trasmissione in streaming di contenuti già esistenti?


Penso che il teatro sia fisicità e luogo, altrimenti si tratta di altro. Fatto sostanziale del teatro è il suo essere un campo di tensioni tra il pubblico e la scena. Questo aspetto non sopravvive se lo spettacolo viene percepito nelle forme mediate della registrazione video o dello streaming.

A volte, durante le prove dei miei lavori con i performer, ho questa esperienza: riprendo le prove in video, poi le guardo sullo schermo e mi sembra che non funzionino. Ma quando le rifacciamo nello spazio e le osservo nuovamente dal vivo, funzionano. Il video non fa passare la parte invisibile, che è quella essenziale; fa perdere le cose sottili, le minime reazioni, le tensioni dentro la scena e rispetto a chi guarda, l’aria. Il teatro in video forse può avere un’utilità in questo momento particolare; un’utilità di tipo quasi informativo, per dire che il teatro continua ad esistere. Ma è un’utilità momentanea. Non si può assumere una soluzione del genere come definitiva.

Forse delle forme nuove, comunque, si possono trovare, anche nell’uso di modalità online. Nella discussione che stiamo facendo, ad esempio, mi sembra vi sia tensione, passaggio di energia. Sono sollecitato dalle vostre domande, e sento la vostra curiosità, il vostro movimento verso la comprensione e il voler fare. Questo mi fa riflettere. Lo scambio tra noi avviene realmente in questo momento. Mentre vedere uno spettacolo registrato o anche live, che viene mandato per intero, è una cosa diversa. Ci viene proposto un elaborato già fatto. Non si crea un vero scambio nei due sensi. Forse una soluzione potrebbero essere dei modi di scambio in diretta, sul momento e nelle due direzioni, basati su regole stabilite e su forme di drammaturgia interattiva.


Sempre a proposito della luce, ci ha molto affascinati il sistema ideato da Geo Florenti di creare luce da altra luce senza generare altro consumo; sistema presentato all’interno della sua installazione Abitanti al Macro Asilo non troppo tempo fa. In questo periodo in cui invece l’ombra sembra prevalere nell’arte, dove e come è possibile secondo lei intercettare quel fascio di luce generativo dal quale può nascere altra luce?


Come ho fatto con altri artisti, ho invitato anche Geo Florenti a realizzare un suo lavoro in relazione all’installazione di luce da me creata al Macro. Geo sta lavorando a un sistema che consiste nel proiettare un fascio di luce su un quadrato di silicio dal quale partono dei cavi ai quali si possono collegare altre luci, che “miracolosamente” si accendono. È un sistema di accumulazione di energia, come quello dei pannelli solari. La differenza è che qui l’energia non viene “conservata” per essere utilizzata nel tempo, ma restituita immediatamente. È una sperimentazione estremamente interessante anche per le conseguenze che può avere in termini di risparmio energetico e sostenibilità. Mi interessava molto per questo: il mio discorso sulla luce come elemento generativo, trova in questa applicazione una declinazione diversa, diretta e concreta, che spero possa portare presto a delle applicazioni efficienti. Ed ha, nel lavoro di Geo, anche una connotazione artistica.

Rispetto invece al dove trovare metaforicamente una luce per il futuro dell’arte, volevo dirvi: siete un gruppo che sta continuando ad operare in questa situazione molto difficile. Vi ammiro per questo, perché significa non aspettare semplicemente che la situazione cambi, ma cercare di pensare da subito soluzioni nuove. Il consiglio che posso darvi è di rimanere uniti, sempre, cercare di esserci, di farvi sentire, come state facendo adesso, in quanto gruppo. Questa è una possibilità per andare avanti.


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