Alessandra Cristiani. La questione del corpo.
- Assolo collettivo
- 4 giu 2020
- Tempo di lettura: 10 min
A cura di Simona Silvestri e Alessandra De Luca. In collaborazione con Aurora Colella, Eugenia Granchelli, Edoardo Proietta.

CREDITI DELL'IMMAGINE:
Accademia Filarmonica di Roma
I Giardini di Luglio 2013 Il Bosco di Eros
24 giugno
Eros Aria
performance di danza
concept e danza Alessandra Cristiani
composizione musicale Claudio Moneta,
esecuzione live Claudio Moneta, Federico Scalas
testi e voce registrata Marcello Sambati
luci Gianni Staropoli
pittura su corpo Flavio Arcangeli
ph Alberto Canu
commissione Accademia Filarmonica di Roma, Teatro Olimpico
coproduzione Compagnia Teatropersona
fonti
Eros, liebe, Marcello Sambati
“Immagine archetipo: il desiderio del sangue di evaporare dal corpo”, Akira Kasai
Danzatrice, performer, ideatrice di percorsi laboratoriali: Alessandra Cristiani è stata in grado, attraverso il suo lavoro e la sua ricerca sul corpo, di imporsi come unicità nel panorama delle arti performative (e non solo) contemporanee. Alessandra Cristiani è una rivoluzionaria del linguaggio coreutico e una sperimentatrice di nuove possibili vie performative: costruisce in una traiettoria autoriale il proprio linguaggio corporeo instaurando un rapporto fecondo col valore e il potere delle immagini, sconfinando in diverse pratiche e riferimenti culturali, in quello che potremmo definire come un melting pot di ascendenze che comunicano fra loro attraverso il suo corpo.
Alessandra Cristiani incontra la Butoh dance negli anni Novanta con i laboratori di Masaki Iwana, creatore del Buto Blanc e figura che rimane costante nella sua ricerca. Dal 2016 ottiene docenze a contratto per l’Università Roma Tre dove svolge laboratori performativi aperti sia agli studenti che ai professionisti. Lo spettacolo Euforia, con la regia di Silvia Rampelli, che la vede tra le performer, riceve nel 2018 il Premio Ubu per il miglior spettacolo di danza.
In occasione della rassegna Il paese fertile – ricerca teatrale al DAMS Università Roma Tre, Alessandra Cristiani sarebbe dovuta essere in scena al Teatro Palladium a fine marzo col suo progetto Corpus Delicti, ispirato dall’opera di Egon Schiele. L’emergenza sanitaria non ha permesso la realizzazione dello spettacolo, tuttavia le abbiamo chiesto di incontrarla “virtualmente” per riflettere assieme a lei su alcune delle questioni fondamentali e fondanti del suo lavoro e sulla sfida che quest’ultimo oggi è costretto ad affrontare.
L’incontro doveva avvenire sulla piattaforma Zoom insieme a tutti gli studenti curatori della rubrica Assolo collettivo - Navigare nella cultura in trasformazione, ma problemi tecnici lo hanno impedito ponendo un ulteriore ostacolo al nostro dialogo, e mettendo alla luce le criticità che un sistema basato sulla non-presenza dal vivo può sollevare. Allo stesso tempo, si è delineata l’urgenza di una riflessione sul tipo di strumenti comunicativi che il presente sembra imporci.
L’incontro è stato perciò realizzato dal vivo, solo dopo il quattro maggio, rispettando le norme sul distanziamento sociale, in forma di dialogo tra Alessandra Cristiani e Simona Silvestri.
A. Cristiani: L’incontro via zoom con gli altri studenti dell’Università non si è realizzato per problemi tecnici…ad ogni modo, al di là della volontà di incontrarsi in modalità videoconferenza per parlare ad esempio del training che doveva farsi o dello spettacolo che è stato sospeso, c’è una questione più urgente su cui vorrei stare. È complicato articolare un pensiero reale sulle pratiche, in questo specifico tempo, se poi non possiamo darne esperienza. Noi forse siamo degli eletti, se penso che anche gli altri ragazzi abbiano avuto una qualche forma di avvicinamento al corpo, però nell’eccezionalità del momento sta emergendo la sua assenza in modo massiccio ed è questo il nodo da osservare.
Durante la quarantena mi sono sostenuta spiritualmente con la lettura di alcuni materiali sul danzatore Tatsumi Hijikata, esponente dell’avanguardia giapponese e con la lettura fondamentale del libro La ricerca degli dei, di Charles Dullin. In quest’ultimo ho ritrovato, in coincidenza con quello che stiamo vivendo adesso, una discussione cruda attorno al teatro, sul come rilanciarlo, sul come agirlo concretamente nel presente e per il futuro. A differenza del contesto culturale francese e delle dinamiche sociali e politiche della prima metà del Novecento, il dibattito oggi stenta a trovare efficaci punti di riferimento. La situazione è aggravata dal mio punto di vista, da un impoverimento della coscienza corporea. Mi riferisco all’esistenza e legittimazione dei valori strettamente legati alle pratiche dell’esperienza e dei processi vitali.
Un esempio specifico e immediato: la percezione del tempo, della sua dimensione organica, una qualità che nel quotidiano può disorientare e che è contraddetta dal ritmo del mercato produttivo. In questo momento storico e complicato molte sono le azioni degli artisti e diverse le proposte fatte loro per reagire alla crisi pandemica: riflessioni e riunioni su Skype, progetti radio, incontri su zoom, video telefonate, spettacoli in streaming, residenze digitali…attività temporanee, che pongono di riflesso un allarmante distanziamento dal linguaggio corporeo.
S. Silvestri: Come si svolge una residenza digitale?
È una domanda che io stessa mi sono posta seriamente. Ho letto e riflettuto sulla proposta del bando. Nella situazione attuale che prevede la riapertura degli spazi di prove e dei Teatri molto tardi e addirittura in coda rispetto alle altre attività del paese, sicuramente la residenza digitale è stata formulata come una opportunità creativa, una possibilità di reazione in qualche modo al fermo fisico e creativo del momento e soprattutto come forma di sostentamento per gli artisti in una situazione purtroppo anomala come quella italiana nel panorama europeo, di scarsa tutela e protezione da parte dello stato della categoria dei lavoratori dello spettacolo. Poi per quanto riguarda la concretezza del mettersi a lavorare, le condizioni da costruire, che a questo punto, viste le ordinanze, devono attuarsi all’interno delle proprie case o in spazi simili con dei propri mezzi a disposizione… io stessa mi sono sentita un po’ persa, in difficoltà. Sicuramente una sfida immaginativa e pratica. Devo ammettere comunque che la mia ricerca performativa sulla tattilità della presenza corporea mi concentra totalitariamente su un solo punto di sofferenza: l’assenza del corpo carnale.
È emerso molto forte il fatto che la cultura, con tutte le sue espressioni, non sia considerata un bene necessario tanto quanto i prodotti di sussistenza. È il valore che si dà a determinate sfere a determinarne l’incisività. Io personalmente ho avvertito progressivamente uno svuotamento di significato dell’arte della cultura e della relazione di queste sfere, ma in modo molto radicale e questa cosa destabilizza.
Sono pienamente d’accordo. Personalmente la sospensione dell’azione e la concentrazione su sé stessi non mi hanno disorientato eccessivamente, poiché come persona e come performer cerco spesso di avvicinarmi a queste condizioni, nella mia vita, per scelta, per contrastare l’eccessiva frenesia del vivere quotidiano. Sono periodi di approfondimento su tematiche performative e dinamiche sociali. Sembrano quasi delle residenze autogestite, ma, come hai espresso perfettamente, a livello macroscopico è ritornato con maggiore forza e crudeltà il contraccolpo più severo, ossia che la cultura semplicemente non è necessaria, non è percepita come un nervo della propria intelligenza a vivere…
…ma dovrebbe, dovrebbe essere proprio, più che una componente della società, un suo collante vero e proprio.
Assolutamente. Immagino la cultura come una grande quercia che sta cedendo, con gran parte delle radici espulse dal terreno. La domanda è come agire per far rientrare queste radici nella terra, per nutrire la società di questa nervatura! Come ricucire questa ferita, che è la ferita più grande. Questa azione dell’arte, reale e immaginativa, di insinuarsi in un corpo dall’interno, ha invece formato e costruito il mio percorso performativo. L’esperienza nel Teatro di strada, nel Terzo Teatro, nel Teatro danza, nella Butoh dance…sono state essenzialmente dei processi appassionanti. Nella pratica lavorativa il coinvolgimento era così forte da far saltare ogni confine e gerarchia. Mi rendo conto che ho avuto fortuna…
Come hai incontrato la Butoh dance?
Il Butoh l’ho incontrato grazie a due persone: Stefano Taiuti e Maria Pia D’orazi.
Stefano Taiuti l’ho conosciuto in un periodo di grande amore per il lavoro teatrale. Frequentavo qualsiasi tipologia di corso pratico. In una di queste sessioni ho incontrato Stefano, che al tempo era un eccellente mimo e si approcciava con intelligenza alla danza. Ho iniziato a collaborare ad alcuni suoi progetti. Quando Stefano incontrò il danzatore butoh Masaki Iwana c’è stato un cambio di rotta che si è ripercosso su di me e su molti altri che seguivano i suoi insegnamenti. Stefano mi spinse a conoscere la metodologia dell’artista giapponese, decisiva per tutto il mio percorso futuro. Il destino.
Come allieva mi nutrivo totalmente del suo spirito e del suo pensiero. Qualsiasi cosa proponesse di fare nei laboratori la tentavo senza esitazione, mossa da una necessità misteriosa. Accade che alcune persone per uno strano potere e intuito, ti portano al limite delle tue risorse fisiche e spirituali, diventando così delle guide imprescindibili. Mi sono ritrovata in una linea di ricerca dell’azione, distante dal mondo accademico. Con la Butoh dance si trattava di mettere in campo tutta un’altra sollecitazione corporea connessa in modo nuovo, almeno per me, alla creatività del pensiero. Ritornando alla potenza di quell’inizio, mai come ora rifletto sulla responsabilità del confronto con i giovani. Mi domando quali siano le loro modalità, come riescano a muoversi o come vengano mossi dagli eventi teatrali intorno a loro. Mi interrogo sulla natura dei loro desideri e sull’importanza di un contesto artistico. Mi interrogo sulla matrice: che fine ha fatto il corpo?
Ritornare ai testi su Tatsumi Hijikata, ha significato e significa questo per me: indagare le radici, rintracciarne il senso e la connessione alla propria umanità, come antidoto a un subdolo senso di colpa innescato dalla società, che premia o emargina le persone in base all’efficacia e ai risultati economici dei loro ruoli sociali.
Qual è il portato del corpo? Come va sollecitato per ritrovarsi in qualche cosa che appartiene profondamente alla propria natura di essere umano e che nonostante ciò, è stato dimenticato?
Silvia Rampelli, regista della compagnia "Habillè d’eau" di cui faccio parte, in una recente residenza ha indagato l’importanza nell’opera dell’aspetto contemplativo. Per quanto tempo e fino a che punto sono disposta ad entrare nel mistero del corpo? Nel senso di tempo, oppure fino a che punto sei disposto a guardare?
L’atto contemplativo, il poter guardare senza misura, senza tempo è di molte arti…penso alla pittura, alla fotografia….L’atto vero del guardare un’opera fa si che anche l’opera cominci a guardare te, in un rilancio dello sguardo potenzialmente inesauribile.
Se persisto nel dare e ricevere lo sguardo vuol dire che di fronte a me qualcosa è a “carne scoperta”, si espone e riconduce al silenzio, può riportarti a un grado alto della ricezione. Secondo me ognuno di noi ha in sé questa possibilità o può trovare fuori da sé qualcosa che lo porta vicino a quell’esperienza. Nel mio caso questo qualcosa si trova nel corpo danzante di Tatsumi Hijikata. Posso osservarlo fino alla contemplazione nei rari frammenti video disponibili. Eccezionalmente il video come mezzo scompare. Cado in uno stato di rapimento di fronte alla sua figura. Il vederlo è già esserne stravolta.
Come performer è riuscito ad attraversare vertiginosamente la sua natura più profonda e insondabile. Assistendo alla sua danza credo sia possibile sollecitare il corpo in modo tale da rivoluzionare il cosiddetto linguaggio coreografico. Chi indaga in questa direzione è il depositario di una linea molto importante della conoscenza. Tatsumi Hijikata è stato capace di rischiare. Essenzialmente è stato mosso da una grande inquietudine. Ha fatto determinate scelte al limite della follia per la convenzione dell’epoca. Decise di non uscire dal Giappone e col passare degli anni si è sempre più ritirato dal fermento pubblico. Nell’ultimo periodo della sua vita, nonostante la malattia e la ritrosia, ha condotto dei laboratori aprendoli a professionisti, critici, studiosi, con l’intento da una parte di diffondere il suo metodo e dall’altra di legittimarne il mistero e l’ambiguità. La libertà e la determinazione di cui è stato capace sono esemplari. Il suo coraggio nell’esporsi, una grazia, un dono di cui avremmo molto bisogno oggi.
Un metodo di difficile definizione e metamorfico perché usava come sollecitazione il verso poetico, le immagini, le figure tratte dall’arte…
È riuscito ad avere quella sensibilità accesa nel trovare dei sentieri e giungere in un punto preciso del corpo, un luogo abitato da un’altra logica, un’altra incandescenza della personalità. È un luogo dove ognuno di noi può trovare la propria identità fisica. Ognuno di noi, toccato quel terreno, ha questa bellissima e faticosa avventura da iniziare, se lo desidera. Quando si è in quel luogo, che temperatura ci invade? E quella temperatura come fa muovere il corpo o come non lo fa muovere? È qui la questione: intercettare l’ago della bussola.
Per chi è nel solco della ricerca riscontra che non è tanto importate la formula fine a sé stessa, quanto individuare quei momenti salienti, all’interno di una pratica costante, che testimoniano come le risorse biologiche di ognuno possano trasformarsi in risorse spirituali e creative, come Grotowski aveva indicato radicalmente nelle sue pratiche e nei suoi studi.
La corporalità, la sostanzialità fisica di una persona…è di questo che si dovrebbe parlare, anche di questo…
Del corpo che prescinde il teatro e la danza.
Si, all’origine, poi il tutto si declina…
Il periodo della quarantena mi ha riportato violentemente su queste questioni. Dal punto di vista artistico mi sono chiesta come mai quel corpo fosse così assente nel dibattito pubblico. L’allarme ha riguardato ogni cosa, ogni aspetto, ogni sopravvivenza, ma non quel corpo. Non esiste come esigenza pubblica. La sensazione è che lo si può urlare e nessuno ascolta. La sensazione è che nessuno si espone, che tutti siano inclusi, che tutti saranno coinvolti dall’effetto boomerang di questo messaggio non ascoltato…Si parla del corpo solamente quando si entra nelle zone del consumo.
Il corpo mi sembra che nel linguaggio del discorso attuale venga ridotto a un intermezzo tra una cosa e l’altra.
Esatto, un intermezzo.
…che va mosso un po’ perché altrimenti si arrugginisce, ma sempre da una posizione esterna, come se tu stessi fuori il tuo stesso corpo. Ma forse è proprio così, che ne stai veramente fuori.
Ma oltre a “corpo”, un altro termine che volevo toccare era “riconfigurazione”. Tutti con il nostro vissuto, le nostre esperienze e la propria posizione stiamo assistendo a una riconfigurazione dei propri contesti e mi interessa molto come questo, in modo progressivo o al contrario, molto violento, stia agendo negli artisti in una riconfigurazione del proprio linguaggio, nei propri materiali di lavoro.
La riconfigurazione è strettamente legata all’esperienza corporea. Quando il corpo è sollecitato in un certo modo, profondamente e nel tempo, avviene un atto rivelatorio e rivoluzionario verso sé stessi, in primis. Ci sono delle pratiche corporee che hanno profonde ripercussioni sulle dinamiche cognitive, attraverso alcune tecniche respiratorie ad esempio. Di questi tempi potrei risultare audace nel sostenere che se volessimo riconfigurare un linguaggio non solamente artistico, ma un linguaggio per la società, un linguaggio per l’architettura, un linguaggio matematico…veramente dovremmo ripartire dal corpo. Anche un ingegnere, un finanziere, un economista prima di progettare, costruire, dovrebbe dedicarsi a una piccola determinata pratica per radicarsi nel corpo. È una possibilità.
Cosa vuol dire radicarsi nel corpo? Sarebbe interessante confrontarne le relative esperienze. Semplificando, perché il fenomeno è molto ricco e vitale, comporta certamente un’integrazione corpo-mente; rilancia oggettivamente la sensazione di sé e l’agire ne trae beneficio.
Chiunque lavora con il corpo ne intercetta la dimensione. La dimensione è reale, ci rende più ricettivi, ci trasforma. Attraverso la maturazione di questi passaggi si può arrivare a riconfigurare, a far “saltare” la convenzione, quella sterile. Naturalmente è un processo che va coltivato e approfondito. È un’azione di semina. Purtroppo la società sta andando in tutt’altra direzione, mi sembra. La pratica del corpo non è più attivata per intercettare altre potenzialità del corpo che non siano quelle sportive o meramente funzionali all’ingranaggio produttivo. Di quell’esperienza si rischia di non avere più memoria.
È un riavvicinarsi al centro?
Sì è questo, riavvicinarsi al centro, ossia al corpo. Coltivare un’azione militante in questa distrazione generale dovuta a una sorta di megalomania dell’informazione. Gettare un seme che custodisca non solo la propria realtà, ma anche la propria utopia. Credo che la realtà di oggi necessiti un’utopia. In fondo, il corpo di per sé è poeticamente sovversivo.
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