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Barletti – Waas: non si può restare a lungo esuli dal terreno degli incontri

a cura di Annalisa Fania, Aurora Colella, Eugenia Granchelli, Andra Bai, Alessandra De Luca. In collaborazione con Giulia Panza, Edoardo Proietta, Simona Silvestri, Alessandra Zoia.


Cresciuti artisticamente a Roma, lavorano prima a Monaco di Baviera, quindi a Lecce, per poi spostarsi a Berlino dove fanno base attualmente: sono abituati agli spostamenti Lea Barletti e Werner Waas dell’omonima compagnia Barletti - Waas, spostamenti che costituiscono, come ci hanno raccontato, linfa vitale per il loro lavoro. Come hanno vissuto questo periodo di fermo forzato, di chiusura dei confini internazionali e di conseguente confinamento nelle case? Ce lo hanno raccontato con grande generosità in questo incontro.

Dal racconto dello spettacolo "Kaspar - Una tortura di parole" di Peter Handke che avrebbe dovuto essere in scena a marzo al Teatro Palladium ma che non abbiamo visto a causa del lockdown, alle riflessioni sulla condizione dei lavoratori dello spettacolo durante la pandemia, passando per un interessante confronto tra Italia e Germania, all’idea di realizzare un crowdfunding per mettere in scena un’ Antigone a due da realizzare nelle case: di seguito il resoconto di una conversazione ricca di stimoli e spunti per la ri-partenza, direttamente dalle voci di chi fermo, per natura, non riesce a restare così a lungo.


Non abbiamo potuto vedere Kaspar di Peter Handke al Teatro Palladium, ci piacerebbe almeno poterci avvicinare allo spettacolo attraverso il vostro sguardo. Quali sono le motivazioni della scelta di questo testo e di questo autore che tra l’altro non è la prima volta che affrontate e che ha anche recentemente vinto il nobel per la letteratura?


Barletti: Partiamo prima dal perché proprio Handke. Il primo spettacolo che abbiamo messo in scena di Handke è Autodiffamazione che abbiamo portato anche al Palladium due anni fa. La prima assoluta di Autodiffamazione risale al 2013 o, addirittura, al 2012. Dopodichè abbiamo fatto tantissime repliche, più di sessanta tra l'Italia e la Germania. Il testo originario è in tedesco, essendo Handke uno scrittore di lingua tedesca, ma noi ne abbiamo fatto una versione bilingue: io parlo in italiano e Werner in tedesco. Il testo è scritto per due oratori, così definiti dall'autore, nella nostra versione ognuno di noi mantiene la sua madrelingua, proprio perché il testo è una specie di educazione sentimentale attraverso la parola. La parola ha un portato di memoria che si può meglio trasmettere soltanto nella propria madrelingua. A partire da questo spettacolo siamo poi come rimasti intrappolati dentro Handke. Per cui, dopo Autodiffamazione, che continuiamo ancora a portare in scena, ci piace tantissimo e vorremmo continuare a fare fino a quando avremo 80 anni e anche di più (ride), ci siamo domandati: quale sarà il nostro prossimo spettacolo? Abbiamo letto tante cose, autori diversi, ma niente ci colpiva così profondamente come ci aveva colpito Handke. Così alla fine siamo ricascati in un secondo Handke, e tutto questo prima che ricevesse il Nobel. Abbiamo scelto Kaspar, che Werner aveva già fatto senza di me, in una versione italiana con Tony Clifton Circus. Noi lo abbiamo fatto in tedesco perché abbiamo debuttato qui in Germania. Si tratta di una “tortura di parole” come cita anche il sottotitolo. L’abbiamo ridotto a due personaggi: un suggeritore, che è in qualche modo il tutor, interpretato da Werner e poi Kaspar che sono io. Il suggeritore mi insegna il tedesco in scena, me lo impone, me lo inculca. Ci è sembrato giusto farlo in tedesco, con tutta la verità anche della mia difficoltà di recitare e parlare in questa lingua. Quindi, in sintesi, si tratta di un corso intensivo di tedesco fatto su Kaspar da parte del suggeritore.



Da quello che dici si evince che lo spettacolo si nutre anche di qualcosa che voi vivete realmente nella quotidianità.



Barletti: Assolutamente sì. Kaspar parla dell’imposizione di una lingua, che vuol dire anche imposizione di una cultura, e di che cosa fa la lingua su un essere umano, sul suo modo di pensare, di rapportarsi con il mondo e con le cose del mondo.


Waas: Il testo si ispira alla storia di Kaspar Hauser, molti film sono stati fatti sulla storia di questo ragazzo che è entrato in contatto con altri esseri umani per la prima volta solo all'età di 17 anni. Kaspar era stato rinchiuso in una grotta dove gli passavano da mangiare, aveva qualche giocattolo e niente di più. Qualcuno gli aveva insegnato a scrivere il proprio nome, e sapeva dire solo una frase in dialetto, che significa: “Vorrei diventare un cavaliere come mio padre lo fu un tempo”.


Barletti: Ad un certo punto è stato liberato. Questa è una storia vera, abbastanza inquietante.


Waas: Un magistrato lo ha preso a casa con sè, gli ha insegnato a parlare e a scrivere. Così Kaspar ha fatto un diario della propria vita. E’ stato ucciso perché a quanto pare era depositario di un segreto che non doveva essere reso pubblico.


Barletti: Probabilmente era il figlio illegittimo di un uomo molto potente, ma non è certo.


Waas: Handke ha preso questa storia come pretesto per dimostrare che cosa può succedere ad un essere umano quando viene messo a contatto con una lingua o con un sistema culturale, che è fatto di tante cose: di modi di pensare, di pensieri già costituiti, di tradizioni, di modelli con i quali ci si deve confrontare, che sono linguistici ma anche comportamentali. Da una parte mostra l'educazione o la tortura di far entrare dentro questo sistema una persona priva di lingua, vergine in qualche modo. E dall’altra mostra le strategie per liberarsene, per emanciparsi da questa prigione, o struttura, che non permette di pensare al di là di quella cultura. E questa è anche la relazione tra me e Lea in scena: lo spettacolo inizia con me che le insegno a parlare il tedesco e quindi anche i primi procedimenti logici che stanno all’interno della sintassi della frase; dopo, nella seconda parte dello spettacolo, quando lei comincia a liberarsi, a emanciparsi da questo, il nostro rapporto si capovolge, e sono quasi più io che devo inseguire lei, o comunque siamo abbastanza alla pari.


Barletti: E’ complesso da raccontare ma non è poi così complesso se lo si vede in scena!


Abbiamo visto che la vostra produzione si concentra soprattutto sull’elaborazione di spettacoli da testi contemporanei (oltre a Peter Handke, anche altri autori viventi come il trentatreenne Bonn Park): qual è il fil rouge che unisce queste scelte (se c’è)? La drammaturgia contemporanea subisce, soprattutto in Italia, un po’ di trascuratezza: credete che sia colpa di un sistema che non osa rischiare o degli autori che non sono così incisivi nel parlare del e al nostro tempo?


Waas: Il motivo della scelta di un autore o di un altro è sempre molto complicato da spiegare. Magari ci sono dei legami che uniscono Bonn Park a Peter Handke: abbiamo detto tante volte a Bonn che certi suoi scritti sembrano proprio presi da certi modi di scrivere di Handke, sembrano nati sotto l’influenza di Peter Handke, anche se lui lo nega. Il fatto di scegliere autori contemporanei per i nostri spettacoli è dovuto sicuramente a un'idea di vicinanza al mondo, come se il teatro, in qualche modo, sia in collegamento, in contatto diretto con quello che tutti quanti noi viviamo. Quest’idea era anche alla base per esempio del premio di drammaturgia che abbiamo istituito quando vivevamo a Lecce: cercare di trovare delle storie, dei discorsi, che parlino della nostra vita, che siano in stretto contatto con quello che tutti noi viviamo, e che creino una necessità e una possibilità del teatro di mischiarsi alla vita. Il teatro non deve essere qualcosa che esiste solo nel passato, come un museo, come qualcosa di completamente scollegato da ciò che viviamo.


Barletti: In realtà il fil-rouge tra i testi che scegliamo da anni, che siano di Handke o di altri autori di drammaturgia contemporanea, è la lingua. Quello che ci interessa è che siano testi in cui la lingua gioca un ruolo di primo piano. Non ci interessano testi “facili”, ci interessano testi che mettano in discussione il modo di guardare le cose, di parlare, di rapportarsi col mondo, e che siano al di sopra del chiacchiericcio. Abbiamo sempre evitato testi che sono altrettanto contemporanei, forse qualcuno direbbe perfino di più, ma che riproducono un livello di uso della lingua che, secondo noi, non apre visioni, non dà sorprese, non permette allo spettatore e all’attore di fare un salto di pensiero. La cosa incredibile di Autodiffamazione ma anche di Kaspar, dei testi di Handke in generale, è che sono come degli strumenti. Ogni volta che dico quelle stesse battute in scena mi si apre un pensiero diverso, nonostante ormai Autodiffamazione lo abbiamo fatto tantissime volte. Questo è impagabile. Non tutti i testi hanno questa peculiarità, anzi pochissimi. Quindi la nostra è soprattutto una ricerca in questo senso, a volte più felice a volte meno, alcuni testi ci soddisfano di più a lungo andare, nell'uso e nell’abuso che ne facciamo, altri dopo un po' esauriscono il loro potenziale, o comunque non ne sono così ricchi.



Lea tu sei approdata anche alla scrittura per la scena, quindi hai, ad un certo punto, sentito la necessità, a proposito della questione della lingua, di parlare con la tua lingua. Come sei arrivata a questo?



Barletti: Ci sono vari motivi, io scrivo quasi da sempre, ma ho iniziato a scrivere per il teatro da poco. Un po' sicuramente ha pesato in questa scelta il fatto che dopo vari anni che mi ritrovavo all'estero avevo bisogno di ritrovare casa nella mia lingua, e quindi ho sentito più forte l'esigenza di scrivere non solo racconti o poesie come avevo fatto fino a quel punto, ma qualcosa che poi potessi anche dire. Così è nato il mio primo testo per il teatro che si chiama Monologo della buona madre, che tra l’altro abbiamo appena fatto in tempo a fare a Roma poco prima del lockdown al Teatro di Villa Torlonia. E’ un testo che ho scritto io ma che ho messo in scena insieme a Werner. Si tratta di un monologo, per cui in scena ci sono solo io, Werner ha curato con me la regia e il disegno luci. Luca Cancello, musicista che vive a Berlino ma originario di Napoli, ha curato le bellissime musiche, realizzando un lavoro fantastico. Sono arrivata così per questa esigenza a riappropriarmi, non solo della lingua in quanto italiano, ma proprio di una lingua mia, scenica. Probabilmente la spinta è stata proprio il fatto di vivere all'estero.



Vediamo in questi giorni cosa sta accadendo in Italia per i lavoratori dello spettacolo e per il mondo dell’arte in generale, come sta affrontando invece la Germania la questione dello spettacolo dal vivo in seguito allo scoppio della pandemia e al conseguente lockdown? Ci sono delle differenze rispetto al nostro Paese, maggiori tutele, diverse prospettive per il futuro? Vivere la quarantena in un paese estero cosa comporta a livello non solo pratico ma anche psicologico?


Waas: Anche qui in Germania come in Italia i teatri sono chiusi, i problemi sono tanti, non si sa quando riapriranno, nessuno sa bene come si evolverà la situazione. Ci sono forse più misure messe in campo da parte dell'amministrazione pubblica. Noi stessi abbiamo potuto usufruire di un aiuto che il municipio di Berlino ha dato agli artisti per superare l'estate, perché tutti abbiamo varie spese, ad esempio l'affitto, e nessuno ha la possibilità di guadagnare alcunché in questa situazione. Dopo non si sa cosa accadrà. Hanno aperto alla possibilità per gli artisti di accedere in maniera preferenziale ad un reddito che danno in genere ai disoccupati. Diciamo che chi non ha di che campare in Germania comunque riesce a farsi dare dallo Stato i soldi che gli permettono di abitare da qualche parte, di accedere ai servizi essenziali: ospedali, trasporti, e anche alla cultura. Da un punto di vista economico questa è più o meno la situazione. Rispetto all'Italia siamo un po' avvantaggiati perché le restrizioni dettate dal lockdown non sono state così drastiche. Non abbiamo mai perso la possibilità di poter uscire di casa, di poter fare una passeggiata, di incontrarci con una persona alla volta mantenendo la distanza di sicurezza. Stasera ad esempio vado ad una performance che abbiamo organizzato in questi giorni seguendo tutte le direttive del momento. Queste direttive non prevedono in realtà di poter ricominciare a fare degli spettacoli teatrali ma prevedono l'apertura di gallerie e di negozi. Quindi abbiamo prefigurato l’evento teatrale come azione in una galleria d'arte dove si può acquistare un “pezzo” di cultura in accordo con le autorità. Facciamo questo esperimento per poche persone. A due persone alla volta si potrà entrare nella galleria, gli altri fruitori possono assistere da fuori guardando attraverso le vetrine della galleria. È un primo step.



Cosa intendete per galleria? Dove si svolge tutto questo? è una galleria d’arte, un museo? Di che luogo si tratta?



Waas: Facciamo parte di un’associazione che fa mensilmente un’uscita pubblica presentando dei testi contemporanei, e abbiamo preso come sede in questo momento un edificio abbandonato. In questo edificio svariate associazioni, rappresentanti di tante diverse discipline, hanno messo in piedi un progetto pionieristico di utilizzo dello spazio in attesa che venga recuperato e probabilmente preso in possesso da grosse istituzioni. Ci sono grandi interessi su questo edificio perché si trova in un posto fantastico, e non resterà sicuramente a nostra disposizione per molto. Ci sono spazi vuoti al centro di Berlino, semi abbandonati, non riscaldati, dove si possono fare delle cose, basta avere un’idea, inventarsi qualcosa e lo spazio si può prendere pagando un affitto esiguo. Un’associazione gestisce il tutto. Nello specifico, tra tutti i vari spazi a disposizione ce ne sono alcuni con delle grandi vetrate che danno sullo spazio pubblico, sulla strada. Per questa prima iniziativa che abbiamo organizzato non abbiamo fatto pubblicità perché non si possono fare spettacoli dal vivo, si può fare solo attività commerciale. Quindi ci saranno 20 o 30 persone, non so quanti potranno arrivare. Tutti, ovviamente, indosseranno le mascherine.


Barletti: Saranno per strada e vedranno la performance da fuori.

Waas: A un un metro e mezzo di distanza l’uno dall’altro. Io non ho ancora visto la performance, l’ha creata un regista nostro amico, è un primo esperimento, solo per farvi capire che è comunque possibile fare delle piccolissime cose. Cosa che invece a Roma mi sembra veramente impossibile.


Per capire meglio: potete usufruire di questi spazi inutilizzati di cui ci parlate d’accordo con le istituzioni o con i proprietari, in attesa che non vengano poi utilizzati da qualcuno altro? Anche a Roma si occupano degli spazi abbandonati ma spesso è qualcosa di illegale, non c’è accordo con le istituzioni.


Waas: No, qui è legale. C’è proprio un’associazione che ha preso la gestione temporanea di tutto questo per creare un cantiere di idee, con svariate iniziative. Assomiglia per certi versi a quello che abbiamo fatto noi a Manifatture Knos a Lecce per tanti anni.

Barletti: E’ comunque una situazione a scadenza, cioè prima o poi finirà. E quando finirà perché interverranno delle istituzioni più forti non so quanto del lavoro che stiamo facendo e di questo spazio si potrà mantenere. È tutto da vedere.

Waas: Faccio un altro esempio riguardo alle tutele per gli artisti a Berlino: noi fra due settimane avevamo in programma degli spettacoli in un teatro che è ovviamente chiuso perché deve sottostare alle regole emanate per tutti i teatri pubblici e privati. Di conseguenza noi perdiamo queste repliche, un po’ come è successo per le date al Palladium. Verranno forse recuperate successivamente, probabilmente nella prossima stagione, ma in ogni caso, le repliche che avevamo in programma ora ci verranno comunque pagate, ci verrà retribuito il 60% del cachet che avevamo pattuito con il teatro, ed è una spesa questa che pagherà il comune di Berlino, che in questo momento ha un assessore alla cultura molto attento ai problemi degli artisti e della cultura in generale.


Quindi ci sono delle iniziative che si stanno mettendo in atto per chi ha perso le repliche già fissate prima del lockdown?


Waas: C’è stata su questo una discussione che si è protratta un po’ nel tempo ma che ha portato alla decisione di retribuire le compagnie con il 60% del cachet pattuito per le repliche, adesso questa scelta ha anche il benestare del ministro.

Tra l’altro lo spettacolo che avremmo dovuto fare adesso qui a Berlino era su un testo di Lea: a seguito del Monologo della buona madre che, come abbiamo già detto, è un testo che ha scritto per lei, ne ha scritto un secondo anche per me che si chiama Ashes to Ashes. Abbiamo quindi due monologhi pronti con i quali vorremmo girare non appena si potrà nuovamente farlo.

Barletti: In questo spettacolo Werner è vestito da clown in bianco, mentre io nel Monologo della buona madre sono vestita tutta di nero, entrambi abbiamo i visi truccati di bianco, neutri.


Pensate comunque in definitiva che in Germania ci sia una forma di attenzione maggiore per la cultura rispetto a quello che sta accadendo in Italia?


Waas: Ci si lamenta un po’ dappertutto, anche qui ci sono grandi polemiche, se ne parla poco e comunque i problemi ci sono.

Barletti: Ad un certo punto bisognerà ricominciare a fare spettacoli e, in questa direzione, non si vedono tante soluzioni per ora. In proporzione qui si sta un po’ meglio, se ne parla di più, gli artisti sono considerati dei lavoratori, però la cultura è comunque considerata l’ultima ruota del carro, anche qui si parla prima del calcio che dei teatri.

Waas: Però c’è da dire che il sistema dei finanziamenti alla cultura funziona, ci sono più strumenti, o, forse, se non sono di più, sono comunque più efficienti. Alcune istituzioni, fondazioni, enti, associazioni hanno anche reagito immediatamente alla situazione, hanno messo in campo misure ad hoc per la crisi provocata dal coronavirus, fatto delle application apposite per poter dare una mano a chi adesso ne ha assolutamente bisogno.

Barletti: Come spesso dico, perlomeno qui a Berlino, perché la situazione è differente in altre parti della Germania anche più ricche come Monaco o Amburgo, non è che di per sé ci siano più soldi rispetto all’Italia, semplicemente questi soldi sono più facilmente accessibili e comunque il sistema funziona meglio. Ho sentito che in Italia ci sono questi famosi 600 euro, e anche intorno a questo si è generata grande confusione: diventano 800, restano 600, sono mensili, sono una tantum, non si capisce chi li prende, chi non li prende, quanto velocemente, ecc. In definitiva, se veramente ci saranno questi 800 euro al mese fino a che non si risolve la situazione, non è che i soldi che hanno dato a noi in Germania siano di più, però ce li hanno dati e subito, senza dover penare, in maniera molto semplice e rapida, è questa la differenza.

Waas: Volevo aggiungere che qui a Berlino c’è una sorta di solidarietà tra le persone che ci tengono a che non muoia quella peculiarità berlinese di essere una città composta da una molteplicità di realtà culturali differenti, che siano i club, i ristoranti, ma anche i teatri off, ecc.


Volevamo sapere da Lea come si vive la quarantena in un Paese che non è il proprio.


Barletti: Male. È brutto lamentarsi, ma la sensazione dell’esilio non l’ho inventata io, esiste una vasta letteratura al riguardo. Avrei ceduto volentieri qualche passeggiata in cambio di sapere quando potrò venire in Italia. Oggi in Italia si può finalmente uscire, andare a trovare delle persone, io qui l’ho sempre potuto fare, però non ho tutte queste persone che ho veramente voglia di vedere e ovviamente questo pesa. Inoltre in questa situazione non solo ci sono alcune cose che non si possono fare, ma quelle che si possono fare ce le auto riduciamo, è una reazione psicologica: ad esempio io qui in Germania potevo vedere una persona per volta anche durante la quarantena più rigida, avrei anche potuto vedere una persona ogni giorno, ma non l’ho fatto, è come se mi fossi adeguata, quasi inconsapevolmente, alla situazione italiana, come se stessi vivendo in due situazioni contemporaneamente. Quindi non ho visto quasi nessuno, solo una volta un’amica, ci siamo date appuntamento a metà strada, a piedi, abbiamo fatto un pezzo di strada insieme, però la verità è che le persone che veramente avrei voglia di vedere, al di là del lavoro, sono in Italia, e ancora su questo non si sa come si evolverà la situazione. La mancanza di prospettiva è orribile, sia lavorativa che affettiva.

Waas: Soprattutto per noi che lavoriamo tanto fra Paesi diversi, fra l’Italia, la Francia e la Germania, abbiamo affetti sparsi qui e lì, gli amici e i colleghi sono in luoghi geograficamente lontani, isolati, e non si capisce come uscire da questa situazione.


Per reagire e agire in questa situazione sappiamo che avete dato vita ad un progetto di crowdfunding per uno spettacolo da fare nelle case, un’Antigone in due, bilingue, nella speranza che le case aprano prima dei teatri. Volete raccontarci di cosa si tratta?


Barletti: Non avevamo mai pensato alla possibilità del crowdfunding, perchè ci sembrava un po' come chiedere alla gente i soldi per fare uno spettacolo, pratica un po’ americana nello stile, io proprio non ci sarei mai arrivata, se non fosse che qui è diverso: le persone hanno veramente interesse ad aiutare e a fare in modo che delle forme d’arte non spariscano. Così alcuni nostri amici, non colleghi del mondo del teatro, ma scienziati, fisici, insegnanti, tutt’altra categoria di persone, ci hanno suggerito di fare un crowdfunding assicurandoci che loro sarebbero stati i nostri primi sostenitori. Così ci siamo detti “proviamoci”, anche, appunto, per reagire alla mancanza di prospettiva.

Noi non siamo per il teatro online, quello si chiama video e noi non lo sappiamo fare, non lo vogliamo fare, non ci interessa, tuttavia qualcosa bisogna pur fare. Ma un crowdfunding per che cosa se i teatri non si possono aprire? Così abbiamo pensato che forse le case potranno riaprire prima, magari per un numero ridotto di persone, almeno in Germania, poi in Italia chissà. Teatro d’appartamento, dunque, che non è una novità assoluta, lo è per noi, dato che non l’abbiamo mai fatto. Si tratta quindi di una Antigone a due da portare nelle case, quando sarà possibile, intanto la dobbiamo preparare, e a questo serve il crowdfunding. Si spera che a settembre i salotti di casa siano aperti.

Waas: Siamo ottimisti, ce la faremo, anche grazie agli amici che hanno voluto sostenerci e che hanno avuto questo strumento per poterlo fare, invece di farci un bonifico, ognuno singolarmente.


Ricordiamo che il crowdfunding è ancora attivo e lo sarà fino al 25 giugno a questo link http://barlettiwaas.eu/?p=902


Barletti: Faremo un’Antigone bilingue perché, secondo noi, Antigone e Creonte, nella loro assoluta incomunicabilità, parlano due lingue diverse.

Waas: E parlano della situazione di tutti noi, dei conflitti che in qualche modo viviamo sulla nostra pelle, di uno Stato che ha le sue ragioni per emanare delle direttive così pesanti sulla vita e sulla coscienza. Ci sono conflitti che investono tutti quanti noi in questo momento.


Con Antigone però tornate ad un classico.


Barletti: Sì, perché è incredibile come questa tragedia parli attraverso tutti questi secoli esattamente del presente.

Waas: Abbiamo chiesto ad un drammaturgo contemporaneo italiano, Fabrizio Sinisi, di farci una traduzione nuova. Di Fabrizio abbiamo abbiamo già messo in scena un testo e ne ho tradotti altri in tedesco. Abbiamo scelto lui perché è un poeta, ci interessava avere una lingua densa e musicale, poetica appunto.


Si può dire che per questa collaborazione l’arte sia riuscita ad attraversare il confine nonostante le imposizioni governative.


Waas: Si, ma non basta questo, bisogna incontrarsi di persona, altrimenti il teatro muore.

Barletti: Vogliamo venirla a fare anche lì Antigone, nelle vostre case.

Waas: Vogliamo trovare un modo per continuare a fare teatro. L’Italia ha un vantaggio rispetto a Berlino: si può stare di più all’aperto, si potrebbero fare tante cose anche per strada già prima che aprano i teatri, in spazi aperti dove si possono tenere le distanze e dove il rischio è minore, io credo che possa essere una strada percorribile.

Barletti: Fate!

Waas: Bisogna incontrarsi, bisogna trovare dei modi per farlo che si possano conciliare con le direttive, con il controllo delle forze dell’ordine, si devono trovare delle possibilità per celebrare insieme il rito del teatro, perché ne abbiamo bisogno. Non si può restar così, chiusi, con davanti solo uno schermo, mi sembra che tre mesi sono già più del tempo che un essere umano può sopportare, non so voi come fate, io lo trovo disumano, è qualcosa che lascia delle ferite, dei danni nel tessuto sociale e nella propria testa che nessuno calcola e che sembra che non appartengano al discorso pubblico di questo momento, alla salute, ma tutta intera: va bene, i polmoni sopravvivono di più, ma che te ne fai di un polmone sano se sei morto psicologicamente. Penso che si debbano andare a trovare delle vie, bisogna lavorare di fantasia, fare pressioni se può servire, non tutto si può digerire.

Barletti: C’è una bellissima frase di Etty Hillesum, scrittrice ebrea tedesca che è stata prigioniera in campi di lavoro, che dice: “Certo, accadono cose che un tempo la nostra ragione non avrebbe creduto possibili. Ma forse possediamo altri organi oltre alla ragione, organi che allora non conoscevamo, e che potrebbero farci capire questa realtà sconcertante. Io credo che per ogni evento l’uomo possieda un organo che gli consenta di superarlo. Se noi salveremo i nostri corpi e basta dai campi di prigionia, dovunque essi siano, sarà troppo poco. Non si tratta infatti di conservare questa vita a ogni costo, ma di come la si conserva. A volte penso che ogni situazione, buona o cattiva, possa arricchire l’uomo di nuove prospettive. E se noi abbandoniamo al loro destino i duri fatti che dobbiamo irrevocabilmente affrontare – se non li ospitiamo nelle nostre teste e nei nostri cuori per farli decantare e divenire fattori di crescita e di comprensione -, allora non siamo una generazione vitale.”[1]

[1] Diario 1941-1943, scritto da Etty Hillesum, pubblicato nel 1981, Adelphi

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